“Suicidato” dalla storia, resuscitato dall’affetto di due fan. La storia di Sixto Diaz Rodríguez è un libro macchiato e impolverato, ma è tanto particolare quanto meritevole di essere letto. Il cantante folk di Detroit che non fu mai famoso in patria, ma divenne una leggenda in Sudafrica, cominciò la sua carriera alla fine degli anni ’60. “I’ll Slip Away”, mi eclisserò, era il titolo (profetico) della sua prima canzone, registrata a 25 anni per una piccola etichetta locale, la Impact.
Un lampo isolato cui Rodriguez, per due anni, non diede seguito. Sesto figlio di una famiglia di umili origini, emigrata dal Messico durante i twenties, il “poeta del Michigan” trascorse gli anni migliori in catena di montaggio anziché in studio di registrazione. Fino al 1970, quando in poco più di dodici mesi, folgorato dall’ispirazione, diede alla luce due album: Cold Fact e Coming From Reality. Caratterizzati da uno stile intimista e da testi ricercati, i dischi ottennero uno scarsissimo successo commerciale.
Solo in patria, però. All’estero, infatti, le canzoni di Rodríguez cominciarono a guadagnarsi un pubblico. In Sudafrica, Nuova Zelanda, Botswana e Australia, brani come “Inner City Blues” e “Cause” scalarono le classifiche, diventando colonna sonora delle proteste giovanili contro l’apartheid. Di questo successo, per anni, il cantautore non fu consapevole. Aveva smesso di scrivere canzoni – Cold Fact e Coming from Reality resteranno a tutti gli effetti i suoi unici dischi fino al nuovo millennio – proprio mentre la sua fama leggendaria stava crescendo.
Un paradosso dagli effetti imprevedibili: all’estero cominciò a diffondersi la voce che Rodríguez si fosse suicidato. Una storia di cui circolarono versioni differenti e contrastanti, e che contribuirono ad alimentare il mito “maledetto” del cantautore. Sulle sue tracce si misero due fan sudafricani, desiderosi di scoprire la verità su quel personaggio tanto celebre quanto sconosciuto. Il risultato di questo peregrinare è stato raccontato nel 2012 in un documentario, intitolato “Searching for Sugar Man”, che ieri notte è stato eletto Miglior documentario dell’anno agli Academy Awards.
Il film, diretto dallo svedese Malik Bendjelloul, è stato accompagnato anche da un disco, contenente brani vecchi e tre canzoni inedite. L’album è entrato nelle classifiche in Svezia, Danimarca e Nuova Zelanda, regalando a Rodríguez un successo ormai insperato e che, probabilmente, ora toccherà anche l’America, terra in cui la sua musica non ha mai fatto breccia. Un po’ come era accaduto nel 1998, quando Rodriguez si era imbattuto in un sito internet sudafricano a lui dedicato, scoprendo di essere, in un altro continente, “più famoso dei Beatles”.
Per girare il film, Bendjelloul ha impiegato tre anni e tutti i suoi soldi, al punto che – come ha raccontato lui stesso – ha rischiato di non portare a termine le riprese. “Avevo cominciato a girare in Super 8, un metodo affascinante ma molto costoso. Così, prima della fine delle riprese finii il budget a disposizione. Ma avevo bisogno di filmare ancora, servivano poche altre scene essenziali. Così ho utilizzato il mio iPhone, grazie ad un’app da un dollaro sono riuscito a ricreare la stessa sensazione della pellicola. Sorprendentemente. E la differenza quasi non si vede”.
È stato salvato dalla tecnologia, Bendjelloul, un po’ come lo stesso Rodríguez, che dopo aver scoperto (grazie al web) la sua popolarità in Africa, ha dato vita ad una serie di concerti – intitolati ironicamente “Dead Men don’t tour” – che hanno attirato decine di migliaia di persone, ansiose di dare un volto al loro misterioso beniamino. Lo “Sugar man” sempre in viaggio, così, è riuscito a tornare alla sua dimensione meritata: l’Oscar, per quanto annunciato, è un riconoscimento giusto per un documentario che è stato acclamato sia dal pubblico, sia dalla critica.