1973, i Pink Floyd scoprono The dark side of the moon

Nel marzo di 40 anni fa esce il disco da leggenda

The Dark Side Of The Moon è il disco dei record. 50 milioni di copie vendute, il record mai superato di oltre 741 settimane complessive di permanenza, lungo quattro decenni, nella Top 100 di Billboard, principale organo di riferimento del settore discografico negli Stati Uniti. E c’è pure chi ha calcolato che, in Gran Bretagna, lo si possa trovare in una abitazione su cinque. È l’album che ha permesso ai Pink Floyd di entrare nel pantheon leggendario del rock portando a compimento la definitiva trasformazione del gruppo: da elusivi beniamini della scena underground a rockstar acclamate, con tutte le luci e le ombre del caso. Ed è entrato nella cultura popolare nei modi più impensati, rinnovando costantemente i suoi legami con l’attualità: negli ultimi anni Novanta della diffusione definitiva di Internet, particolarmente sensibili al complotto e alla cospirazione, la leggenda metropolitana secondo cui le musiche dell’album sarebbero state composte in sincronia con le immagini de Il mago di Oz di Victor Flemingha appassionato schiere di fan di ultima generazione.

Uno degli album simbolo degli anni Settanta, il più celebre della band di Cambridge insieme a The Wall, veniva pubblicato il 23 marzo di quarant’anni fa, dopo essere stato testato in pubblico, in occasione di alcuni concerti al Rainbow di Londra, addirittura un anno prima. Il fatto che quelle primissime esibizioni della suite, provvisoriamente intitolata A Piece For Assorted Lunatics, “una pièce per pazzi assortiti”, con una scaletta non ancora definitiva e arrangiamenti parzialmente differenti, fosse stato documentato da un bootleg di grande successo indicava l’appeal commerciale di canzoni che rinunciavano, seppur parzialmente, al lato più sperimentale esplorato dal gruppo durante la sua prima fase, concentrandosi invece su strofe e ritornelli. I Floyd tuttavia, pur convinti della bontà del materiale registrato, non erano assolutamente preparati a un successo di così vasta portata.

Una possibile chiave di lettura di tale successo risiede senz’altro nel tema che si era scelto di affrontare nelle canzoni, proposto dal bassista Roger Waters, a quel punto autore di tutti i testi e leader di fatto, anche se non ancora tirannico come negli anni a venire: la follia, intesa come limite che ciascun individuo, spinto dalle pressioni della famiglia e della società, rischiava facilmente di oltrepassare, ritrovandosi, appunto, sul “lato oscuro della luna”. Un tema di portata universale, in grado di far risuonare più di una corda nell’ascoltatore, che aveva oltretutto profonde radici nella storia del gruppo, il cui fondatore Syd Barrett, cui gli ex compagni dedicheranno nel 1975 Shine On You Crazy Diamond, era stato allontanato nel 1968, ormai ingestibile vittima di problemi psichiatrici amplificati dall’eccessivo consumo di LSD.

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Un altro tassello essenziale è rappresentato dalla cura per i dettagli sonori. Per rendere l’insieme e il racconto a tema più organico, si decise di interrogare una serie di personaggi che frequentavano gli studi londinesi di Abbey Road, luogo delle registrazioni, facendo loro domande d’impronta esistenziale e registrando risposte che sarebbero finite in un secondo tempo a puntellare le canzoni, una sorta di ulteriore sottotrama di voci che contribuiva, con gli effetti sonori che erano da tempo un elementi caratteristico del suono della band, a creare un vero e proprio film per le orecchie.

In ultimo, alla straordinaria popolarità contribuiva il riconoscibilissimo design della copertina, essenziale quanto suggestivo. Ne era autore lo studio grafico Hipgnosis, che seguiva il gruppo fin dagli inizi e ne era divenuto una sorta di appendice visuale. Si trattava dell’immagine su sfondo nero di un prisma che scomponeva un raggio luminoso nello spettro dei colori visibili, i quali andavano a formare una linea che si dipanava lungo le quattro facciate della copertina, creando un ingegnoso e paradossale effetto di continuità. La linea dei colori era increspata da onde analoghe a quelle di un elettrocardiogramma, riferimento al suono di un cuore pulsante che apriva e chiudeva il disco, suggerendo anch’esso un senso di circolarità.

Nelle prime settimane le vendite erano state nella norma, quelle di un gruppo in crescita ma ancora non universalmente riconosciuto, ma sulla scia della pubblicazione di Money come singolo sul mercato statunitense da parte della Columbia, etichetta americana del gruppo, i numeri presero a crescere vertiginosamente. E proprio l’accoglienza riservata durante i primi concerti a quella canzone, per ironia della sorte una sarcastica anti-ode al denaro e al successo, indicava la misura del cambiamento. Tutto d’un tratto, folle di ragazzini vocianti che pretendevano l’esecuzione del brano avevano sostituito il silenzioso pubblico che ascoltava lunghe canzoni come Echoes senza che “cadesse uno spillo”, per citare le parole del gruppo.

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Il successo inatteso, inevitabilmente, portava con sé i germi di una crisi che anni dopo sarebbe sfociata in lotte intestine, avvocati e lunghe e sfiancanti rivalità, e gettava in un primo momento il gruppo in un vuoto creativo da cui sarebbe uscito a fatica con il disco successivo, Wish You Were Here, nato dalla brillante intuizione di raccontare l’impasse dall’interno.

The Dark Side Of The Moon non ha portato con sé solamente folle osannanti, innumerevoli dischi di platino, ville, yacht e una improvvisa crisi creativa, ma anche detrattori. Una minoranza relegata in un angolo buio e un po’ nascosto che però, ad un certo punto, con l’avvento del punk, ha incarnato lo spirito dei nuovi tempi, intolleranti nei confronti di quello che era diventato, inevitabilmente, il simbolo di una musica percepita come giurassica, caratterizzata da un apparato spettacolare sempre più mastodontico e per qualcuno pretenzioso. Johnny Rotten dei Sex Pistols si farà carico della scomunica, indossando nel 1977 una celebre maglia con su scritto “I hate Pink Floyd”. Ancora in tempi recenti, il guru alternativo Julian Cope si produrrà in una definizione brutale: “mantra da salotto”. Eppure a lungo andare la forza del disco, il suo carattere comunque innovativo a dispetto di accuse di tradimento più o meno legittime, ha avuto ragione anche dei pregiudizi più persistenti. Ecco quindi emergere, a partire da fine anni Novanta, realtà musicali profondamente debitrici di quel suono, come ad esempio i francesi Air, mentre gruppi come gli americani Flaming Lips, nati da una forma di psichedelia agli antipodi di quella vagamente patinata e divulgativa canonizzata nel disco, approdavano nel 2009 all’omaggio vero e proprio, una rilettura integrale dell’album. Ed è difficile non riconoscere nell’anima creativa e sperimentale di un fenomeno di grande successo come i Radiohead una filiazione del medesimo ceppo.

The Dark Side Of The Moon è sopravvissuto ai dileggi ma ha rischiato di cadere sotto i colpi di una inevitabile sovraesposizione mediatica, ha perseguitato i suoi creatori, ha avuto una diffusione tanto capillare da correre il rischio di restare sullo sfondo, eppure continua a rimanere impresso nella memoria, senza mai veramente passare di moda. E il motivo di questa permanenza nell’immaginario collettivo è probabilmente dovuto al fatto che a chiunque, prima o poi, è toccato riconoscersi nella frase che chiude il disco, catturata dal registratore di Abbey Road e pronunciata dal portinaio del celebre studio: “Non esiste davvero un lato oscuro della luna. In realtà è tutto buio”.

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