A pochi passi a Roma sfilano i pro e contro Silvio

Berlusconiani e anti berlusconiani nella Capitale

ROMA – Per un intero pomeriggio il centro di Roma si è trasformato nel teatro della contrapposizione fisica e plateale di due mondi animati da un odio viscerale l’uno verso l’altro. A Piazza del Popolo si riunivano gli elettori del Popolo della libertà per gridare la propria avversione all’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria e soprattutto per difendere Silvio Berlusconi da quelle che vengono percepite come persecuzioni della magistratura e dell’odiata sinistra per eliminare il loro leader dalla scena pubblica.

A poche centinaia di metri sull’altra sponda del Tevere, a Piazza Santi Apostoli, cittadini intenzionati a rimuovere ciò che ai loro occhi appare come la più grave anomalia del panorama democratico italiano, decidevano di rispondere all’appello promosso da Micromega per decretare una volta per tutte l’ineleggibilità del Cavaliere dalle cariche istituzionali. L’atmosfera, i contenuti, il linguaggio delle due manifestazioni più antitetiche che si potessero immaginare si potevano leggere sui volti dei partecipanti e negli slogan scritti e gridati nei due luoghi storici della Capitale. Parole e sguardi che si accendevano di disprezzo e rancore al solo accenno all’iniziativa organizzata “nell’altra piazza”, quasi si trattasse di nemici della civiltà e dell’umanità.

Tuttavia la cronaca di un sabato rappresentativo del crepuscolo della seconda Repubblica fa emergere un profondo punto di affinità e di convergenza fra due Italie così inconciliabili: la radicale avversione a qualunque ipotesi di collaborazione fra Partito democratico e centro-destra per la formazione del nuovo governo. Scenario che se costituisce una logica premessa per i manifestanti di Santi Apostoli accorsi con la parola d’ordine dell’applicazione letterale della legge del 1957 che esclude dalla candidatura in Parlamento ogni soggetto imprenditoriale beneficiario di una concessione statale, viene rifiutato con forza dai partecipanti all’incontro a sostegno del Cavaliere. Animati più che mai dalla consapevolezza della ritrovata forza politica e dal desiderio di una rivincita elettorale con cui completare la rimonta appena sfiorata a fine febbraio.

È l’orgoglio a permeare l’incontro dell’ex capo del governo con i suoi supporter. Con un elemento in più: il timore della sua eliminazione dalla scena pubblica per via giudiziaria e la voglia di difendere colui che viene tuttora percepito come l’unico baluardo e interprete di esigenze e interessi diffusi nella società. Stato d’animo profondamente radicato, che l’ex premier vuole rafforzare ed entusiasmare con un intervento degno dell’apertura di una nuova campagna elettorale. Lungi dall’evocare gli scenari di una Grosse Koalition con il Pd, il Cavaliere appare tutto rivolto a riconquistare e mobilitare il suo campo di gioco, e sceglie di infiammare la folla “questa volta per vincere alla grande”. A quel popolo si rivolge chiedendo: “Siete contenti e soddisfatti di come ho condotto la campagna elettorale e sui mezzi di comunicazione, nei quali ho visto tanti comunisti da provocarmi gli occhi rossi e la congiuntivite?” Ai propri elettori domanda: “Siete convinti di una nuova e decisiva rimonta elettorale per un governo alternativo a quello dei post-comunisti oggi più pericolosi che mai?”

Perché lui è pronto. Lo è a nome “della maggioranza degli italiani che era ritenuta agonizzante sul piano politico-elettorale e che invece è in piazza a rivendicare le proprie ragioni, a combattere contro la crisi senza rancore e odio sociale, con speranza e con il sorriso”. Sorriso che per la verità viene più volte sopraffatto da una pioggia di fischi quando il leader del centro-destra fa il nome dei suoi “nemici politici”. Prima di tutti “il signor Bersani, che dopo una campagna spocchiosa basata sulla sicurezza di vincere non ha avuto il coraggio di ammettere la sconfitta”. Poi l’attuale Presidente del Consiglio, “non in grado di rappresentare l’Italia e privo della necessaria credibilità internazionale, supino alla Germania e oggi anche all’India”. E infine Beppe Grillo, “presentatosi come dittatore dello Stato libero delle banane, che oggi manifesta nei cantieri dell’Alta velocità in compagnia di anarchici, estremisti e gruppi ostili allo sviluppo e alle infrastrutture strategiche”. 

Ma è nei confronti del Nazareno che si concentra l’attenzione polemica del Cavaliere, intenzionato a rivendicare al proprio schieramento la Presidenza della Repubblica, “poiché una sinistra che ha vinto alla Camera grazie allo 0,36 per cento dei voti ottenuto per la sua antica e sapiente militanza nelle sezioni elettorali, non può sequestrare la totalità delle cariche istituzionali. Si tratterebbe di una sorta di golpe”. La strada preferibile, ribadisce Berlusconi riproponendo un suo cavallo di battaglia, è l’elezione diretta del Capo dello Stato, “democraticamente e con una campagna libera e aperta come avviene negli Stati Uniti o in Francia”. Ma ancora una volta nessuna parola viene pronunciata dal Cavaliere sui pilastri di tali modelli istituzionali, chiave di volta della loro forza e solidità: il meccanismo di voto maggioritario di collegio, e un robusto sistema di contrappesi e bilanciamenti tra poteri pubblici.

Ai vertici del Partito democratico l’ex capo del governo imputa di “aver messo in campo in modo irresponsabile questioni estranee ai problemi veri del paese e alla sua sofferenza: tirannia fiscale, incubo delle cartelle ricevute dall’Agenzia delle entrate, burocrazia soffocante e oppressiva, assenza di lavoro provocata dalla spirale austerità finanziaria-recessione, gli scenari ciprioti di prelievo forzoso sul risparmio privato”. E di aver focalizzato l’attenzione su “temi lunari come la propria ineleggibilità, il conflitto di interessi, la legge sulla corruzione e sul falso in bilancio, l’occupazione del potere come hanno fatto da sempre con il Monte dei Paschi e a cui si erano preparati scientificamente prima del voto”. Solo per questa ragione, grida il Cavaliere dal palco, Bersani ha preferito “corteggiare e inseguire il marziano e miliardario Grillo, che ama parlare di decrescita felice in una fase di recessione e impoverimento, e punta come Benito Mussolini su un esecutivo monocolore con il 100 per cento dei consensi”. 

Agli occhi del Cavaliere, per il quale Berlusconi e berlusconismo indicano ormai un modo di essere collettivo, le alternative che si prospettano al premier incaricato sono ben precise. “Perseverare in un governo precario di minoranza pensando al proprio interesse e salvezza, o accettare l’unica alleanza forte indicata dal responso delle urne. Se la sinistra vorrà proseguire sull’onda dell’odio e dall’invidia contro il popolo del centro-destra e sull’eliminazione dell’unico ostacolo all’attuazione dei suoi disegni illiberali e oppressivi in campo economico-fiscale, sappia che la nostra opposizione in Parlamento e nelle piazze sarà durissima. Così come lo sarà la nostra campagna contro una parte della magistratura militante e politicizzata”. Terreno che il Cavaliere arricchisce con un’ultima proposta destinata ad alimentare reazioni altrettanto feroci. “Rivendicare per tutti, ancor più per gli eletti dal popolo, la facoltà di esigere la revoca e la sostituzione di un pm schierato con una corrente militante e orientata ideologicamente della magistratura”. 

La prima risposta all’intervento del Cavaliere giunge proprio dall’“altra piazza”, dominata dalle bandiere comuniste, cubane e arcobaleno, ma ispirata, come ricorda il direttore di Micromega Paolo Flores d’Arcais, dalla parola d’ordine cardine di ogni democrazia politica liberale e occidentale: il primato assoluto della legge su qualunque potere e il dovere del controllo di legalità sulle iniziative dei suoi rappresentanti. Perché il consenso più massiccio non rende nessuno superiore alle regole del diritto. Una formulazione “logica e naturale che però finora nel Pd è stata fatta propria solo dal capogruppo a Palazzo Madama Luigi Zanda, pronto a votare per l’ineleggibilità del Cavaliere come già annunciato dai parlamentari Cinque Stelle”.

È qui il cuore del messaggio lanciato da Piazza Santi Apostoli, rivolto allo stato maggiore del Nazareno, che dunque appare come l’interlocutore privilegiato delle due manifestazioni contrapposte. Ammonendo sul fatto che “Berlusconi quando parla di golpe proietta sugli altri le sue più recondite intenzioni”, Flores spiega che “la possibilità storica di estromettere il Caimano dalla vita istituzionale è a portata di mano, visto che nella Giunta per le elezioni del senato Pd e M5S hanno la maggioranza netta. Sappia Bersani che se non voterà l’ineleggibilità dell’ex premier rispettando la lettera della legge del 1957 si assumerà una responsabilità imperdonabile, poiché impedirà un cambiamento concreto ed epocale della vita pubblica e le prospettive di autentica governabilità”. 

Sul palco si alternano, grazie alla regia dello scrittore e drammaturgo Moni Ovadia, personalità della cultura e della politica che recitano alcuni articoli emblematici della Costituzione, dando corpo al repertorio e al vocabolario di un mondo legato allo statalismo e al primato della dimensione collettiva sulla libertà economica individuale. Lidia Ravera, neo-assessore alla Cultura e Sport della Giunta di Nicola Zingaretti, ricorda come “per decenni l’Italia non sia stata né democratica né fondata sul lavoro e sulla responsabilizzazione personale, ma plutocratica e pronta a difendere i privilegi di chi, anche rappresentante dei cittadini, vuole sottrarsi ai processi e alla giustizia. Un’anomalia che il popolo sovrano ha il dovere di rimuovere”. Furio Colombo declama l’articolo 3 della Carta fondamentale, “un testo che nell’altra piazza sarebbe apparso come l’aglio di fronte a Dracula, visto che il Cavaliere è fuori legge a prescindere dalla norma del 1957.

Punta al controllo dell’informazione e al prevalere degli interessi privati sugli spazi di democrazia pubblica. E ha sistematicamente mentito su tutto, facendo strage delle leggi e della legalità, come nei tre trattati di amicizia stipulati con Gheddafi per respingere gli immigrati dalle nostre coste”. La lettura dell’articolo 21 tocca a Giuseppe Giulietti, il quale “nella grande piazza della Costituzione rifiuta di ricevere lezioni da chi esorta alla moderazione contro gli estremisti e i sovversivi che manifestano davanti ai tribunali, e che in nome del consenso si proclamano superiori alla legge rivelandosi estranei al pensiero e alla storia liberale”. Ma è al magistrato-candidato Antonio Ingroia che la platea tributa una vera ovazione. Soprattutto quando l’ex leader di Rivoluzione civile ricorda che “per fuoriuscire dal tunnel ventennale del regime berlusconiano e ripristinare i cardini dell’eguaglianza giuridica e sostanziale dei cittadini, è doveroso fermare il Cavaliere decretandone l’ineleggibilità e l’espulsione dal Parlamento”.
 

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