BARCELLONA – Secondo Pedro Almodóvar la Spagna è un Airbus 340 in caduta libera per colpa di grossolani errori altrui. Tutti gli spagnoli, passeggeri di quel velivolo, sembrano irrimediabilmente spacciati. Così il regista manchego vede la situazione del suo Paese. Costruisce, con la magia della cinematografia, una metafora di acciaio con le ali per raccontare la Spagna: l’attuale morsa (crisi finanziaria e corruzione) che sta soffocando il tessuto socio-economico spagnolo diventa la tragica avventura di un velivolo in avaria.
Linkiesta ha incontrato Almodóvar a Barcellona, all’anteprima mondiale de Gli amanti passeggeri, in Italia al cinema dal 21 marzo. La sua è una commedia «leggera-leggera e che fa molto ridere», dice subito mettendo le mani avanti.
«L’ho girata con un budget molto basso e l’aiuto, quasi a costo zero, di amici (Penélope Cruz e Antonio Banderas, ndr)». Ma, por favor, meglio non azzardare che il suo 21esimo film è il solito Almodóvar, lui s’incazzerebbe molto, benché sul grande schermo ci sia quel palpitante universo dove albergano variopinti personaggi, bizzarri e invadenti. Sono i protagonisti di un linguaggio di celluloide in cui il cineasta riversa ironia, dramma, commedia, leggerezza, paura, follia, il tutto declinato all’ennesima potenza almodovariana. «Gli amanti passeggeri è la storia di un gruppo di persone intrappolate in uno spazio angusto e privo di collegamenti con l’esterno. Inizialmente la sceneggiatura mi sembrava un capriccio comico, alla fine è diventata una commedia corale, morale, orale e irreale o irrealista».
Nel film, l’ipotetico volo 2549 dell’ipotetica compagnia Península, in volo da Madrid a Città del Messico, ha a bordo un campionario di varia umanità. Personaggi infantili, disonesti, ciarlatani, angosciati, specchio dell’attuale società spagnola. C’è un terzetto di steward (Carlos Areces, Javier Cámara e Raúl Arévalo) che ostenta il suo orgoglio gay, non risparmiandosi critiche e sculettamenti barocchi, capace di sparate tanto goliardiche, quanto di riflessioni così profonde e incomprensibili sulla “sicurezza del sedere” da mandare in manicomio Freud. Poi ci sono una coppia di sposini in viaggio di nozze (Miguel Ángel Silvestre e Laya Martí), fiaccati da una cafonesca festa nuziale (metafora degli sprechi del Paese), un imprenditore (José Luis Torrijo), corrotto e maneggione che sta fuggendo dalle manette (specchio degli scandali di malversazione tra politica e affari privati) e una veggente (Lola Dueñas), zitella stagionata e lussuriosa, benché vergine. In pista c’è León (Antonio Banderas), il tecnico colpevole di un grossolano errore che metterà in gioco la vita dei passeggeri (altra metafora del Paese condannato al collasso per le cattive azioni altrui), e Penélope Cruz tra muletti e valigie da caricare.
«Non ho avuto alcun riferimento cinematografico – aggiunge Pedro Almodóvar – Ero consapevole, mentre scrivevo, di aver aggiunto più teatro, più televisione e la mia claustrofobia per il cinema». A 11 mila metri, i pensieri non sono anestetizzati dall’ossigeno della pressurizzazione o, momentaneamente, rimossi nell’arco della crociera aerea. Al contrario, le debolezze umane si esasperano. Gli unici tranquilli, davanti alla minaccia di uno schianto, sono i piloti (il copilota è Hugo Silva), consapevoli che le azioni umane molto spesso sono il frutto del contraddittorio.
«Cercheremo di rendere il vostro viaggio il più lieto possibile», annuncia il solerte assistente di volo Joserra e poi incalza ammiccante: «Ma non chiedeteci come lo faremo», altra metafora sull’attuale condotta della politica che nasconde i veri problemi dietro a soluzioni fumose. E benché gli sforzi dei tre vivaci assistenti, su tutti aleggia ben presto la convinzione di essere giunti al capolinea. Ed è, allora, che in modo corale, tutti si abbandoneranno alle confessioni più intime, in una sorta di testamento orale e logorroico che setaccia la propria vita, dalla sessualità all’amore, fino alla catarsi e all’autoassoluzione rotte da una risata liberatoria o da una fellatio tra le nuvole.
«Ho scritto la sceneggiatura attingendo dalla nostalgia per il teatro – aggiunge il regista – Tutti i miei film devono molto al teatro, sono pieni di scene a due. Ho creato molti personaggi, ma ho ridotto il loro spazio». Qui, a stretto contatto l’uno con l’altro, ogni passeggero dovrà combattere i propri fantasmi «Senza l’aiuto consolatorio della tecnologia. Un concetto che oggi è quasi impossibile da capire: senza immagini e senza informazioni ad anestetizzare i pensieri. Senza iPad e Internet, condannati a essere solo se stessi in mezzo a sconosciuti». Ma da dove arriverà la salvezza? «Oltre alla lettura, l’arma per sopravvivere è la potenza della parola, per comunicare, sfogarsi, mentire, mentirsi, riconoscere che si è mentito, sedurre, essere sedotti, condividere, lottare contro la paura, la solitudine e l’idea della morte. Parole svergognate, patetiche, artificiali, divertite, esagerate, fragili, arroganti, rotte, compiacenti, edoniste, liberissime e soprattutto di intrattenimento». E qui Borges perdoni Almodóvar per l’uso eccessivo degli aggettivi.