Benvenuto Presidente: e “uno di noi” salì al Quirinale

I grillini scelgono il loro (non) candidato al Colle: è la giornalista Milena Gabanelli

Uomini nuovi, persone lontane dal Palazzo, “gente come noi”, volti comuni. Il messaggio di novità uscito dalle urne è giunto forte e chiaro. E curiosamente trova una rappresentazione quasi in diretta nelle sale cinematografiche. Da circa un mese è uscito Viva la libertà di Roberto Andò: il leader della sinistra italiana (Toni Servillo), immobilizzato dall’incertezza e dalla depressione, d’improvviso decide di sparire, ma viene sostituito dal suo fratello gemello, un filosofo pazzo guarito. Va da sé che questi è straordinariamente più brillante, convincente ed efficace del congiunto politicante, e in sua vece conduce il partito alla vittoria elettorale.

Chiaro, no? Ma rende ancor più limpido il discorso un’altra commedia, in uscita il 21 marzo, che stavolta punta in alto, più alto che si può: il Quirinale. In Benvenuto presidente si racconta che i partiti sono imballati: non sanno chi indicare come capo dello Stato. Per evidenziare l’impasse, fanno uno scherzo: votano Giuseppe Garibaldi, il padre della patria. E Garibaldi viene eletto.

Lo scherzo diventa però di colpo serio, perché in effetti di Giuseppe Garibaldi in Italia ce ne sono, per la precisione sono quattro e uno di loro ha i titoli per ascendere al Colle. Trattasi di Giuseppe detto Peppino Garibaldi (Claudio Bisio), calvo e barbuto, bibliotecario precario, amante della pesca alle trote, un fallito per il figliolo, un gran brava persona per i suoi amici. Non si può tornare indietro, la votazione è regolare: Garibaldi è presidente. E da presidente comincia a farsi beffa del protocollo, prende in giro corazzieri e commessi, gioca nei corridoi presidenziali, ma fa anche animazione per i bimbi ammalati, rifiuta lo stipendio da 239 mila euro («Ma che me ne faccio!»), non firma leggi che non comprende, perché se non le capisci, le leggi, come fai a rispettarle? «Questo è uno di noi, è uno del popolo», dice la gente quando lo vede in tv. Lui si sente inadeguato al compito ma un amico lo conforta: «Se sei un grande pescatore, sarai anche un grande presidente».

Semplicismo? Qualunquismo? Non è questo il punto: una commedia non ha la pretesa di spiegarci la realtà. Indubbiamente però, con l’ondata grillina e l’innegabile rinnovamento compiuto nel Pd, non al Quirinale o alle massime cariche ma certamente in importantissimi ruoli istituzionali del prossimo Parlamento, peraltro mai così giovane e mai così rosa, andranno persone venute dalla quotidianità, magari dal precariato, ed estranee finora al Palazzo: proprio come il Peppino Garibaldi di Benvenuto presidente o il prof di filosofia di Viva la libertà. Un bene, un male? Vedremo i risultati. Di sicuro è una buona notizia che il nostro cinema trovi un po’ di sintonia con la realtà che ci circonda. E soprattutto abbia la voglia di affrontare la politica, mai troppo frequentata nelle sue storie: per una incapacità di comprensione, per una malintesa intimistica idea di autorialità, o forse anche per un consociativismo culturale che induceva al silenzio.

Tuttavia quando il nostro cinema ha saputo (e potuto) narrare i sussulti grandi e piccoli che avvenivano nelle stanze dei bottoni, ha spesso colto nel segno: da Le mani sulla città di Francesco Rosi sul sacco edilizio nella Napoli laurina al teatro della crudeltà democristiana di Todo modo di Elio Petri; dal boicottato Colpo di Stato di Luciano Salce, che immaginava cosa sarebbe successo se il Pci avesse vinto le elezioni, a Vogliamo i colonnelli, geniale satira di Mario Monicelli su un immaginario golpe nero; fino ai sospiri estremi comunisti in Palombella rossa di Nanni Moretti e alla splendida grottesca epopea andreottiana del Divo di Paolo Sorrentino.

Raccontare la politica con i suoi personaggi vuol dire avvicinarla alle persone, superare un improprio timore reverenziale verso il potere o peggio un qualunquistico disprezzo verso chi opera nelle istituzioni. Negli Stati Uniti sono innumerevoli le produzioni cinematografiche o le serie televisive che hanno per oggetto la Casa Bianca e il suo (vero o inventato) inquilino: che ha avuto le sembianze, tra i vari, di divi come Harrison Ford o Michael Douglas, Jack Nicholson o John Travolta, Morgan Freeman o Martin Sheen, Jon Voight o da ultimo Daniel Day-Lewis per il Lincoln di Spielberg. E, dentro e fuori gli Usa, aumentano le pellicole dedicate a capi di Stato o leader politici, baciate puntualmente dal successo: basta scorrere l’elenco dei più recenti interpreti maschili e femminili premiati con l’Oscar per imbattersi in Helen Mirren nei panni di Elisabetta II in The Queen (2007), Sean Penn che dà il volto a Harvey Milk (2009), Colin Firth che è Giorgio VI in Il discorso del re (2011), l’anno scorso Meryl Streep come Margaret Thatcher in The Iron Lady e infine il già citato Day-Lewis lincolniano consacrato due settimane fa.

Insomma, qui si parla di politica, eccome. Anche perché chi non ne parla in genere la subisce. Con o senza camicie nere in giro.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter