Caetano Veloso e il suo formidabile abbraccio di suoni

Ritorno in grande stile

Recente ospite del Festival di Sanremo, settant’anni compiuti lo scorso agosto, Caetano Veloso ha da poco pubblicato il suo quarantanovesimo album, Abraçaço, ultimo capitolo di una trilogia in cui il celebrato battitore libero della musica brasiliana ripercorre gli anni della dittatura militare e ribadisce il ritrovato entusiasmo per le sonorità rock. 

Al Festival di Sanremo del 1971, uno dei brani in concorso, presentato dai non ancora così famosi Ricchi e Poveri, è Che sarà, nostalgica evocazione dell’abbandono del paesello d’origine alla ricerca di un destino migliore dipinta con toni da strapaese. Un classico istantaneo della canzone nazionalpopolare nostrana scritto da Jimmy Fontana, Franco Migliacci e Carlo Pes e in seguito portato al successo anche all’estero da José Feliciano.

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Quello stesso anno, esiliato a Londra dalla dittatura militare che ha intensificato la repressione ai danni di tutti quegli artisti che giudica in un modo o nell’altro eversivi, il brasiliano Caetano Veloso, non ancora star internazionale, dà alle stampe un album senza titolo, cantato in inglese. Tra le canzoni in scaletta c’è un malinconico e dolente calypso intitolato London London, intriso di una nostalgia per la patria lontana che neppure la consapevolezza di vivere nella stimolante capitale della cultura giovanile riesce a scacciare. Le due canzoni, nelle rispettive strofe, presentano una somiglianza impressionante. Difficile parlare di plagi o citazioni, essendo l’uscita dei due brani pressoché contemporanea: il brano di Veloso è di poco precedente, uno dei primi che ha scritto una volta stabilitosi nella capitale britannica, ma è come minimo improbabile che agli autori di Che sarà sia giunta all’orecchio la canzone inedita di un pressoché sconosciuto brasiliano in esilio. Una coincidenza, molto probabilmente, che tuttavia ha assunto curiosi risvolti nel momento in cui, a quarantadue anni di distanza, il cantautore brasiliano ha calcato per la prima volta il palco del Teatro Ariston.

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Sanremo e Veloso non potrebbero essere due mondi più distanti, e anche la conduzione affidata a Fabio Fazio, tentativo palese – e riuscito solo in misura minima – di sdoganare il festival attribuendogli una immagine più moderna e meno conservatrice e di trasformare il proverbiale baraccone in un appuntamento con la qualità, non è riuscito ad attenuare questa impressione. A settant’anni Caetano Veloso è quanto di più lontano si possa immaginare dall’archetipo della vecchia gloria chiamata a comparire in un carrozzone televisivo, o dall’inevitabile fenomeno di massa invitato allo scopo di catturare l’attenzione dei più giovani.

Se non è più l’eretico provocatore che in gioventù aveva nutrito e sposato la causa dei tropicalisti, gruppo di giovani artisti (tra cui Gilberto Gil, Gal Costa e gli Os Mutantes) che aveva scosso un paese tutto patria, chiesa e famiglia ipotizzando la commistione tra le discipline artistiche e la contaminazione con le forme musicali angloamericane e gli stili di vita della controcultura hippie, finendo sotto il bersaglio sia della sinistra (l’accusa era, ovviamente, quella di connivenza con il nemico imperialista) che della destra è comunque uno che non ha mai smesso di mettersi in gioco.

L’album che ha appena pubblicato, Abraçaço (“abbracciaccio”), conclusione di una trilogia realizzata con il contributo di un gruppo rock i cui componenti messi insieme superano a malapena la sua età (Pedro Sà sa alla chitarra, Ricardo Dias Gomes al basso e Marcelo Calado alla batteria), è il quarantanovesimo della serie; nel brano Um comunista racconta la storia del baiano Carlos Marighella, padre italiano e madre africana, attivista ucciso dalla dittatura militare nel 1964.

Brano che, se eseguito all’Ariston, siamo certi avrebbe scatenato infinite polemiche sul tema della par condicio. Ma Veloso è al di là di qualsiasi polemica su appartenenze ideologiche reali o presunte. La canzone mostra piuttosto come i turbolenti anni Sessanta siano stati un momento fondante, luci e ombre incluse, per il percorso artistico del nostro. Nel libro di memorie Verdade Tropical, pubblicato in Brasile nel 1997 (e uscito una decina di anni fa in Italia per Feltrinelli con il titolo Verità Topicale), Veloso ripercorre gli anni della contestazione focalizzando l’attenzione soprattutto sul doloroso periodo della prigionia: arrestato nel dicembre del 1968 insieme all’amico Gilberto Gil con accuse pretestuose legate ad un concerto di qualche mese prima (le provocazioni artistiche dei tropicalisti avrebbero minacciato, secondo i militari, la stabilità delle istituzioni: il vero obiettivo era, ovviamente, reprimere chiunque cercasse, in un modo o nell’altro, di manifestare un pensiero indipendente) trascorreva parecchi mesi in cella tra minacce e intimidazioni, con il timore costante di essere vittima di una esecuzione sommaria.

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L’esilio (con Gil e le rispettive consorti), dapprima in Portogallo e poi a Londra, non veniva vissuto con sollievo ma era accompagnato da una crescente forma di depressione. Tuttavia, con l’uscita del secondo disco in inglese, Transa, nel 1972, concomitanti l’allentamento delle maglie repressive della sempre più declinante dittatura e la prospettiva di un imminente ritorno in patria, il vento era cambiato. Gli anni Settanta di Veloso saranno ricchi di sperimentazioni e collaborazioni ma poveri di riscontri commerciali, anche se ne cementeranno la fama di cantautore fuori dagli schemi, alla continua ricerca di nuovi stimoli.

La vera consacrazione internazionale arriva nel decennio successivo, e rispecchia una apertura globale mai venuta meno, fin dalle influenze angloamericane del periodo tropicalista, sfociata nell’album ancora una volta senza titolo pubblicato nel 1986 e contenente una particolarissima versione di Billy Jean di Michael Jackson. Nel 1989 Caetano conquista gli Stati Uniti grazie a Estrangeiro, registrato a New York con il contributo di nomi di punta della scena rock e jazz d’avanguardia come Arto Lindsey, Bill Frisell e Mark Ribot, mentre negli anni Novanta si consolida un antico legame con il nostro paese, inaugurato nei lontani anni Cinquanta quando Veloso, prima appassionato e poi studente di cinema, era rimasto stregato dalla visione, in una piccola sala di Santo Amaro, il piccolo paese di provincia nello stato di Bahia in cui era nato e cresciuto, dei film di Federico Fellini, in particolare La strada. Un concerto a San Marino del 1997, celebrazione di Fellini e Giulietta Masina, si trasformava in un album dal vivo, Omaggio a Federico e Giulietta, mentre il cinema italiano ritornava tra i solchi di Noites Do Norte del 2000, con una sentita Michelangelo Antonioni.

Nel 2002 l’amore per la settima arte si manifestava infine in un significativo cameo: una versione del classico Cuccurucuccu Paloma eseguita con sole chitarra e voce in una scena chiave di Parla con lei dello spagnolo Pedro Almodovar. Apparizione che ne consolidava la fama presso certi ambienti radical chic nostrani (constatazione, non giudizio di merito), mentre nel resto del mondo insospettabili musicisti rock di area più o meno mainstream non smettevano di celebrarne l’arte: lo scorso anno, ad esempio, sono stati pubblicati sia un concerto newyorchese registrato insieme a David Byrne qualche anno prima che un disco tributo in cui gli artisti più disparati (Beck, Devendra Banhart, Chrissie Hynde dei Pretenders tra gli altri) ne rileggevano il repertorio.

Avvolta dalla melassa buonista che in molti contestano al Fazio-pensiero o meno, appropriata al contesto sanremese o meno (e chissà che cosa si sarebbe detto di uno che al suo apparire in patria era stato considerato stonato se mai si fosse presentato a cantare London London sul palco sanremese del 1971), l’esibizione di Caetano Veloso a Sanremo ha avuto comunque un suo perché: imbracciata la chitarra, accompagnato dall’orchestra, Veloso ha eseguito la sua Você é linda e Piove di Domenico Modugno, interpretando poi un altro classico della nostra canzone, Come prima, all’interno del medley pianistico proposto da Stefano Bollani. La celebrazione inevitabilmente un po’ retorica, televisiva nei tempi e nella brutale necessità di sintesi e semplificazione, di una «icona della musica brasiliana nel mondo». La quale, a dispetto della naturale umiltà («Sono solo un vecchio baiano, un tizio / Un Caetano, un fratello qualsiasi / vado contromano, canto contro la melodia / Nuoto controcorrente», cantava in Branquina, brano tratto da Estrangeiro), ha dato un’impronta unica alla musica popolare del suo tempo senza mai smettere di guardare avanti e guardarsi intorno. A settant’anni così come a venti.