Con Kerry l’agenda Usa è la pace in Medio Oriente

Con Kerry l’agenda Usa è la pace in Medio Oriente

NEW YORK – È a caccia di un grosso successo diplomatico, forse in Medio Oriente. Ma si muove con grande cautela, perché al momento, per John Kerry, neo Segretario di Stato americano, il palcoscenico internazionale presenta più insidie che opportunità. Si pensi alle relazioni con la Cina a quelle con la Russia, al nucleare iraniano, al processo di pace fra israeliani e palestinesi in fase di stallo.

Non c’è una discontinuità con il suo predecessore, la fuoriclasse Hillary Clinton, che Kerry ha sempre appoggiato lealmente come presidente del Comitato degli Affari Esteri in senato, anche su dossier controversi come quello degli attacchi di Bengasi, ma il primo mese di Kerry da Segretario di Stato lascia trasparire l’intenzione di giocare un ruolo di maggiore peso nell’Amministrazione Obama rispetto a Hillary.

Se il compito della Clinton era stato sostanzialmente fare il lifting all’immagine dell’America in giro per il globo dopo l’era targata George W. Bush (facendo fronte al contempo alle varie crisi che via via affioravano soprattutto in Medio Oriente) Kerry vorrebbe ottenere qualche risultato diplomatico di grande rilievo, per esempio sul terreno della questione palestinese o sul versante della sfibrante guerra civile siriana.

«Guardando il suo background culturale e politico, credo che Kerry entrerà più nel merito dei negoziati tra israeliani e palestinesi rispetto a quanto fatto dall’ex Segretario Clinton», dice a Linkiesta, Nina Hachigian, senior fellow al think tank progressista Center for American Progress, che negli anni ‘90 ha lavorato al Consiglio per la Sicurezza Nazionale. La Clinton non ha investito molto tempo sul processo di pace anche in virtù di un governo israeliano poco ricettivo, una Hamas violenta a Gaza e un’Autorità nazionale palestinese molto fragile nella West Bank.

L’altro versante sui cui Kerry potrebbe cercare un negoziato efficace e significativo potrebbe essere la questione siriana, con l’obiettivo innanzitutto di convincere il presidente Bashar al-Assad ad abbandonare il Paese. Ma per adesso, anche su questa materia, i passi sono estremamente misurati. Proprio in queste ore gli Stati Uniti hanno autorizzato per la prima volta un pacchetto di aiuti alimentari e medici a beneficio dell’Esercito libero siriano. Washington ha anche varato uno stanziamento di 60 milioni di dollari per consentire al bureau politico del braccio armato anti-Assad di fornire migliori servizi, specialmente in fatto di sanità e istruzione, nelle aree del Paese in cui ha il controllo della territorio. È la prima volta dall’inizio della guerra civile quasi due anni fa – in cui secondo un rapporto delle Nazioni Unite hanno perso la vita oltre 60mila persone – che una simile tipologia di aiuti viene annunciata pubblicamente, a riprova della grande prudenza di Washington in questo teatro. In breve, per Kerry ottenere qualche risultato sul fronte siriano non sarà facile.

«Kerry può essere ambizioso quanto vuole, ma dovrà sottostare agli stessi parametri a cui è stata soggetta la Clinton negli scorsi quattro anni», spiega a Linkiesta Aaron David Miller, ex funzionario del dipartimento di stato, negoziatore e consigliere sia di segretari di stato repubblicani sia democratici e oggi Middle East scholar al Woodrow Wilson International Center for Scholars in Washington. «Da un lato la situazione internazionale attuale non offre particolari opportunità per gli Stati Uniti, semmai presenta vari rischi, specie in Medio Oriente dove ci sono annosi problemi da gestire, dove gli Stati nati dalle rivoluzioni arabe non sembrano voler cooperare come in passato. Dall’altro lato Kerry, come la Clinton, si troverà agli ordini del presidente più accentratore dai tempi di Richard Nixon. Barack Obama non delega; domina». 

La Clinton, per la verità, alcuni obiettivi importanti li ha centrati durante il suo mandato. Per esempio ha il merito di aver reso il Myanmar un Paese più democratico, e si è resa protagonista di politiche a difesa dei diritti delle donne in aree del mondo in cui la loro condizione è ancora molto critica. (Un impegno che si prevede avrà un seguito anche con Kerry). Il raggio d’azione della Clinton è stato, però, fortemente limitato da un presidente – Obama – determinato a tenersi fuori da grossi impegni internazionali mentre stava faticosamente ritirando le truppe dall’Iraq e stava studiando una strategia di disimpegno anche dall’Afghanistan.

Kerry vorrebbe fare ancora meglio della superstar Clinton. Dopo l’insuccesso nella campagna elettorale del 2004 poi vinta da George W. Bush, oggi Kerry, a 69 anni, ha la chance di lasciare il segno nella Storia del suo Paese. È l’occasione attesa da decenni. Nel suo primo discorso da Segretario di Stato qualche giorno fa alla University of Virginia ha ribadito di avere progetti ambiziosi per il suo mandato. Rifiuta l’idea di un’America che si chiude a protezione dei suoi interessi nazionali, disinteressandosi del mondo. «Dopo la seconda guerra mondiale l’America aveva la possibilità, così come l’abbiamo noi oggi, di scegliere l’isolamento», ha detto Kerry. «Al contrario però il Segretario di Stato George Marshall ha visto sia nelle nazioni sconfitte sia in quelle alleate la minaccia impellente della bancarotta, le case e le stazioni distrutte, la gente alla fame e le economie in ginocchio». 

Questa voglia di Kerry di rilanciare Washington sul palcoscenico internazionale e provare a risolvere alcune delle questioni più complesse nell’attuale scacchiere, è almeno in parte dovuto a due fattori. Primo, questo è con buona probabilità l’ultimo atto della sua carriera politica, una cavalcata lunga quattro decadi segnata da alti e bassi. Secondo, la nuova amministrazione Obama non dovrà più ripresentarsi al giudizio degli elettori. Insomma, Kerry ha le mani più libere di Hillary, almeno in teoria.

Alcuni segni di smarcamento rispetto a Hillary sono già affiorati. Invece di inaugurare il suo nuovo corso alla segreteria di Stato con un viaggio in Asia come fece la Clinton per sottolineare come sia quella regione il baricentro della politica estera americana di questo secolo, Kerry è volato nella vecchia Europa (Germania, Francia, Italia) per poi proseguire verso il Medio Oriente (Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar) passando per la Turchia. La nuova strategia sembra quella di voler affrontare alcune crisi contingenti, per esempio quella siriana, piuttosto che porre l’accento sulla strategia di lungo termine in Asia.

«La vera differenza da tener presente tra Hillary Clinton e John Kerry», dice Miller, «è che la prima non aveva nulla da dimostrare quando è diventata Segretario di Stato. Insieme a Colin Powell è stata forse una delle poche star della politica americana a ricoprire quel ruolo. Kerry, invece, ha molto da dimostrare. E al primo errore pioveranno critiche dure per lui, perché non è una star, non è una Hillary Clinton. Per questo è molto cauto. E il suo primo viaggio lascia intravedere proprio questo approccio. Andare in Europa piuttosto che in Asia vuol dire giocare in difesa».

Per Miller alla fine l’ambizione di Kerry si risolverà o meno in successi in ragione di tre fattori: quanto spazio il presidente Obama gli concederà; il sorgere di concatenazioni di eventi che portino (oppure no) a condizioni favorevoli per stringere accordi; e il suo livello di competenza nell’arte della negoziazione. 

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