La soluzione c’è, ma il percorso per attuarla è troppo tortuoso per un’emergenza. Come ha spiegato oggi a Roma Antonio Tajani, vicepresidente della Commissione europea con delega all’Industria, Bruxelles si è detta disponibile ad adottare una certa “flessibilità” nel soppesare l’incidenza sul debito e sul deficit pubblico dello stock di crediti che i fornitori vantano nei confronti della Pa. Una buona notizia che riguarda i miliardi – Confindustria, citando Bankitalia, dice 71, ma il numero complessivo non è univoco, visto che il computo si calcola su base regionale – che lo Stato deve ancora riconoscere alle piccole e medie imprese. Un problema che si riferisce in primis alla sanità, la principale voce che concorre alla formazione del deficit nazionale con 35 miliardi (dati della Corte dei Conti) di debiti da parte delle Regioni e tempi medi che arrivano a 291 giorni. Con situazioni paradossali come la Calabria, dove le aziende sono costrette a pazientare fino a due anni e mezzo per veder corrisposte le loro spettanze dalle Asl.
Introiti senza i quali il merito di credito delle società peggiora e, di conseguenza, le banche aumentano i tassi d’interesse e le garanzie reali su prestiti e mutui, che già concedono già con il contagocce. A trarne le conseguenze è proprio un report diffuso a inizio febbraio dalla Commissione europea, secondo cui i ritardi hanno toccato quota 340 miliardi di euro, mentre il 57% delle imprese comunitarie si è ritrovata a corto di liquidità per colpa del settore pubblico. Uno scandalo a cui l’Ue ha tentato di porre rimedio con la direttiva 2011/7/UE, che obbliga le amministrazioni pubbliche a saldare le fatture entro 30 giorni.
La ratio del provvedimento, che si ispira allo Small Business Act americano, l’agenzia per lo sviluppo del credito alle Pmi creata nel ’53 da Eisenhower e implementata da Obama nel 2010, è di facilitare lo sviluppo del credito alle Pmi, di cui la liquidità che deriva dai pagamenti, come detto, è uno degli aspetti fondamentali nel rating assegnato loro dalle banche. Le quali, come ha evidenziato Mario Draghi lo scorso giovedì nel corso di un intervento al Consiglio europeo, hanno ridotto del 3% i prestiti a imprese e famiglie nel triennio compreso tra il 2010 e il 2012, evidenziando un aumento delle sofferenze (i crediti non più recuperabili) ben superiore alla crescita degli impieghi.
«Il Patto di stabilità e crescita permette di prendere in considerazione fattori significativi in sede di valutazione della conformità del bilancio di uno Stato membro con i criteri di deficit e di debito del Patto stesso: in tale ambito, la liquidazione di debiti commerciali potrebbe rientrare tra i fattori attenuanti», recita la nota congiunta diffusa stamani da Tajani e da Olli Rehn, eurocommissario agli Affari economici e monetari. Gli strumenti sono molteplici, da forme di compensazione fiscale o titoli di Stato. Alla Pa pagare in ritardo non conviene: per chi sfora la deroga a 60 giorni il tasso applicato è quello della Bce (0,75%) maggiorato dell’8 per cento. Se, come ha calcolato quest’estate Assobiomedica, i debiti delle Asl oltre i 60 giorni ammontano a 5,1 miliardi, significa che se ne vanno in interessi 446 milioni di euro l’anno. Proprio Tajani, via Sole 24 Ore, aveva tirato le orecchie al ministro Passera proprio sulla possibilità di sforare dai 30 giorni qualora fosse giustificato «dalle circostanze esistenti al momento» della conclusione del contratto di fornitura. Una formulazione che presenta «un carattere vago», con il rischio che il pagamento a due mesi per la Pa diventi «la regola piuttosto che un’eccezione», ha detto ancora Tajani.
La disponibilità dell’ortodosso Rehn, a dialogare con l’Italia sul tema, dopo le feroci critiche a lui riservate dal Nobel Paul Krugman – che lo ha accusato di aver scritto una lettera ai ministri europei dell’Economia intimando di non diffondere studi allarmisti sulla situazione economica comunitaria per non compromettere la fiducia nel rigore – è sicuramente un passo in avanti, frutto di un difficile lavoro di negoziazione cominciato da Tajani a fine dicembre, ma rischia di trasformarsi presto in un tentativo vano. Se infatti Roma ha incassato da Bruxelles il via libera alla possibilità di valutare lo stock pregresso dei debiti all’interno dei parametri mitiganti del patto di stabilità e crescita, che significa prima di tutto evitare l’apertura di una procedura d’infrazione – gli arretrati gonfierebbero il deficit e il debito pubblico – le modalità di definizione del piano di rientro spettano al governo italiano, cioè al prossimo ministro dello Sviluppo Economico.
E qui casca l’asino. Nella migliore delle ipotesi, cioè nell’eventualità che Napolitano affidi pieno mandato a Bersani per formare l’esecutivo – ipotesi tutt’altro che scontata – il nuovo titolare del dicastero di via Veneto non giurerebbe prima di inizio aprile. E anche qualora il piano venisse posto al punto numero uno dell’agenda, difficilmente il piano di liquidazione vedrebbe la luce in tempi brevi. E solo con un dossier sul tavolo gli uomini di Tajani sarebbero pronti a lavorare sia per costruirlo che per eseguirlo. Nel frattempo le imprese muoiono.