Il nome di Mario Monti come via d’uscita dal dramma politico e finanziario dell’estate 2011 circola nei palazzi da mesi. Ma è solo grazie al piglio “presidenzialista” (tendenza Quirinale) di Giorgio Napolitano che, da nome sussurrato nei retroscena, il Professore diventa successore del Cavaliere in una manciata di ore concitate nella prima metà di novembre. Assenza di una maggioranza alla Camera (8 novembre), nomina di Monti al laticlavio nel giorno del record assoluto dello spread (575 punti base sui titoli tedeschi, 9 novembre), approvazione del ddl stabilità e dimissioni del governo (12), incarico al Professore con insediamento pressoché immediato (14). L’operazione è violenta ma chirurgica e lucidissima, ha sponde consolidate in tutte le principali forze politiche e nelle cancellerie internazionali, che seguono con preoccupazione l’evolversi della crisi italiana. In particolare la nomina a senatore a vita, “tecnicamente”non necessaria per la premiership, è il vero capolavoro di un navigatore d’eccezione che ha esteso con rischio calcolato l’“elastico” dei suoi poteri, per recuperare l’efficace immagine che Davide Giacalone ha utilizzato in una recente analisi storico-istituzionale del Quirinale (“L’uomo del Colle”, Boroli 2012). Monti è così arrivato con la corazza non scalfibile del capo dello Stato, la garanzia di autonomia e indipendenza della carica di senatore a vita, i margini ampi per operare in condizioni d’emergenza. È nei fatti un “governo del presidente”, in una sorprendente creatività di cui si è fatto interprete un 86enne ex quadro del partito comunista italiano.
Nel corso dello «strano governo», come lo chiama lo stesso Professore che lo dirige, sono innumerevoli le sponde esplicite del Colle: da sempre critico con le decretazioni, il Quirinale “copre” svariate decisioni di Monti in questo senso motivandole con l’urgenza della situazione economica. Napolitano prima si rammarica del mancato ingresso nella squadra di elementi di garanzia espressione di Pdl e Pd, poi protegge il “suo” esecutivo dalla morsa dei partiti con piglio quasi muscolare. Ultimo dei tanti intrecci, va registrato l’epilogo del governo tecnico. Suprema eterogenesi dei fini, la creatura in un certo senso si rivolta. Le parole con cui il Colle fa capire, verso la fine del 2012, al premier che un suo ingresso in campo non è cosa esattamente gradita sono molto chiare: «Monti è senatore a vita, non si può candidare al Parlamento perché è già parlamentare e questo non è un particolare da poco, anche se qualche vota lo si dimentica. Dopo le elezioni può essere coinvolto», scandisce a novembre. Poi la situazione muta rapidamente: il premier fa leva sul discorso aspro del segretario del Pdl Angelino Alfano alla Camera per “simulare” una sfiducia del Pdl (che in Parlamento non si verifica), anticipa di poche settimane la fine del suo esecutivo e “condanna” Napolitano a conferire anche il prossimo incarico, prima della fine del settennato. Ma soprattutto Monti stesso si candida, mettendosi a capo di una coalizione con Fini e Casini, data dai sondaggi del febbraio 2013 come terza o quarta forza, ma in predicato di governare con il Pd.
Il discorso di fine anno di Napolitano, il suo ultimo, con cui il capo di Stato si congeda, contiene un messaggio che suona come un avvertimento: «Il senatore Monti ha compiuto una libera scelta di iniziativa programmatica e di impegno politico. Egli non poteva candidarsi al Parlamento, facendone già parte come senatore a vita. Poteva, e l’ha fatto – non è il primo caso nella nostra storia recente – patrocinare, dopo aver presieduto un governo tecnico, una nuova entità politico-elettorale, che prenderà parte alla competizione al pari degli altri schieramenti. D’altronde non c’è nel nostro ordinamento costituzionale l’elezione diretta del primo ministro, del capo del governo. Il presidente del Consiglio dimissionario è tenuto – secondo una prassi consolidata – ad assicurare entro limiti ben definiti la gestione degli affari correnti, e ad attuare leggi e deleghe già approvate dal Parlamento, nel solco delle scelte sancite con la fiducia dalle diverse forze politiche che sostenevano il suo governo. Il ministro dell’Interno garantirà con assoluta imparzialità il corretto svolgimento del procedimento elettorale». Una raccomandazione non dovuta alla correttezza, di fatto simile a un rimbrotto e non senza tracce di delusione per quello che ha tutta l’aria di un esperimento un po’ scappato di mano.
Incarico di governo a parte, il più importante passo istituzionale di Giorgio Napolitano alla fine del mandato è un tour – fissato per la seconda metà di febbraio – delle cancellerie internazionali comprendente soprattutto il rieletto Barack Obama e la cancelliera Angela Merkel, che si prepara alla campagna elettorale che potrebbe regalarle a settembre il terzo, storico mandato alla guida del governo tedesco. Per quanto in parte programmati, non sono catalogabili come incontri di prammatica. Le drammatiche settimane dell’estate e autunno 2011 hanno trasferito sul Colle il centro di gravità della politica italiana, dall’economia alle scelte sullo scacchiere internazionale. Sul cambio in corsa di palazzo Chigi, non solo i giornali italiani ma anche la grande stampa estera ha dato spazio a ricostruzioni sulle “consultazioni” tra Quirinale e governi europei, quello tedesco su tutti. Secondo il Wall Street Journal (dicembre 2011) sarebbe stata Angela Merkel a “sollecitare” Napolitano per una rimozione di Berlusconi da Palazzo Chigi. Due mesi prima la stessa versione appare sul New York Times: «Mr. Sarkozy and Mrs. Merkel this month had privately urged Italy’s president, Giorgio Napolitano, to put Mr. Monti in the prime minister’s job». Che tipo di rassicurazioni o quale manifestazione d’intenti il capo di Stato darà a Obama e Merkel sul suo ultimo atto da presidente? E sulla sua successione al Quirinale?
Quel che è certo è che mai come con Giorgio Napolitano il “presidenzialismo” del Colle si è spinto in maniera visibile a plasmare la direzione della politica italiana. Non si tratta, nel suo caso, della tradizionale e talvolta esecrata attività di modifica o intervento su leggi in corso d’opera (un esempio su tutti: le richieste di Ciampi sulla legge elettorale varata dal centrodestra nel 2005). Dal Quirinale si è creato un governo, si sono gestite partite cruciali quali la partecipazione dell’Italia all’intervento in Libia, si sono dettati tempi e modi di un delicatissimo intreccio di calendario. E, certo, non tutto è andato secondo i piani: «Mio malgrado sarò io a dare il nuovo incarico», chiarisce nel dicembre 2012, preso atto dell’accelerazione della fine del governo Monti e dunque del leggero anticipo della scadenza elettorale. Con ogni probabilità il capo di Stato considera ridotte le possibilità di un “richiamo” del Professore – vuoi per palazzo Chigi, vuoi come suo successore – dopo una campagna elettorale combattuta non certo super partes.
Il parziale “fallimento” dell’operazione-Monti suona quasi come l’ultimo dei tanti passaggi enormi eppure sospesi che questo settennato consegna al Paese, (…) trovando in Napolitano un interprete saldo e fuori dal comune, che malgrado la sua fortissima connotazione storico-ideologica è stato percepito come meno “partigiano” di uno Scalfaro e meno “eterodosso” di un Cossiga. Eppure la stessa eccezionalità pare quasi farne intravvedere il limite: il portato, rivoluzionario ancorché non privo di limiti, del suo settennato è stato possibile solo in quanto esercitato dall’unico potere che non ha bisogno di eserciti: quello quirinalizio. E il prezzo dei pesantissimi cambiamenti tentati è in definitiva l’assenza di una traduzione politica reale, cioè spendibile al di fuori di quel potere e di quel protagonista. Un camaleonte incompiuto.
*Martino Cervo (1981) è caporedattore a Libero, dove si occupa più che altro di politica. Con Mattia Ferraresi ha scritto Obama, l’irresistibile ascesa di un’illusione (Rubbettino, 2010). Per Linkiesta ha scritto “Re Giorgio. Napolitano, il comunista che ha cambiato l’Italia”, di cui questo articolo è un estratto.