I cardinali stanno sospesi tra la terra e il cielo. Non si tratta della bipolarità intrinseca alla missione ecclesiastica, rappresentata dal fatto che, per quanto di Chiesa, sempre di uomini si tratta, ma dello specialissimo stato d’ animo che coinvolge, in questi giorni, la gran parte dei porporati appena giunti o in arrivo a Roma.
Gli eminentissimi sanno che occorre scegliere al loro interno una personalità dotata di carisma, spiccata leadership, capacità di comunicare. Dovrà essere – e apparire – uomo di fede, pur se non sembra facile replicare l’ intensa spiritualità di Wojtyla. Necessariamente, dovrà essere fermo nella dottrina. Ma dovrà anche saper dare risposte al mondo. Ai cardinali non sono sfuggiti alcuni “segni”, che citano per dimostrare come la realtà superi «la fantasia intelligente» del Vaticano (così la definisce uno di loro).
(…) Nell’ attesa di entrare nella Sistina rifioriranno, forse, riedizioni di antiche catalogazioni (“conservatore”, “riformista”), certo emergeranno nuove distinzioni. Del tutto elettorale, è una categoria che resterà in vita solo per la durata del conclave: quella dei cardinal-peone, i portatori d’ acqua per i colleghi papabili, cui non viene attribuita alcuna chance. Esclusa la ventina di nomi di candidati al soglio che, a rose più o meno larghe, compaiono sui giornali e nelle chiacchiere di curia (e alcune personalità di spicco come Martini considerate fuori gioco per “progressismo”, età o malattie), resta un gruppo numericamente assai forte che comprende arcivescovi residenziali in quattro continenti, vescovi in pensione e prelati di curia.
Buona parte di queste eminenze (che abbiamo chiamato peones senz’ alcuna intenzione ironica, ma per la diffusa immediatezza della definizione) sono meri esecutori solo in termini di conclave: si tratta dei responsabili di arcidiocesi in Spagna e (almeno tre) in Italia. Altri, come gran parte degli africani, esclusi Arinze e Tumi, del Camerun, e qualche prelato espresso dai movimenti, procedono in ordine sparso: cercano di orientarsi, con prudenza, guardano i giornali ma tengono rapporti guardinghi con i media dati gli alti inviti a non rilasciare interviste.
Partecipano alle congregazioni in corso e trovano qualche sponda nei legami nazionali e linguistici. «Quando sono così sbandati, li orientiamo un pochino», ammette uno dei responsabili di un movimento benedetto da Giovanni Paolo II. Lobby? Oltretevere dirlo sembra una parolaccia. Alcuni tendono ad allinearsi verso le soluzioni istituzionali più dirette: «Il che – per un cardinale emerito – vuol dire Ratzinger».
Giorno dopo giorno, prende corpo il ruolo dei grandi elettori: Sodano, il cui formidabile ego dà luogo a dicerie quotidiane, dispone di un pacchetto di voti sull’ asse Europa-America del Sud. Ruini, che invece appare molto prudente, ha un notevole peso elettorale, distribuito qua e là, anche per gli aiuti della Cei agli episcopati più poveri. Argentini, brasiliani, venezuelani, messicani e spagnoli hanno chance in proprio e forza negoziale. Chi spera in una soluzione “progressista” (per quanto questa categoria nella geografia religiosa appaia ormai stinta) punta sull’ attivismo del belga Daneels, arcivescovo di Malines-Bruxelles, e del primate tedesco Lehman, tra i pochi a trovare il coraggio, in questi anni, di esprimere qualche critica.
Le riunioni preparatorie della prossima settimana, a cui parteciperanno elettori in numero crescente, svolgeranno anche il ruolo di palestra per fare emergere personalità rimaste finora un po’ in ombra, che hanno maturato la loro esperienza soltanto al sinodo dei vescovi, abituate a votare ma non a contrapporsi. Nei nostri tempi non è mai capitato che venisse eletto un outsider assoluto: tutti in Vaticano scommettono all’ interno della rosa dei papabili, le cui qualità sono riconosciute.
«Ma lo Spirito Santo ci illuminerà», hanno dichiarato, invitando alla fiducia, diversi cardinali. Il che autorizza chiunque lo voglia a sperare. Perché la Sacra Colomba non potrebbe posarsi su un peone, facendosi beffe di tanti ragionamenti? In questi giorni il dibattito verte anche sui problemi irrisolti. «Nessuno naturalmente osa dire che il papa defunto ha fatto male qualcosa», dice Andrea Riccardi, fondatore di Sant’ Egidio.
Le critiche si spostano sulla curia, Segreteria di Stato e Dottrina della fede innanzitutto, che divengono metafore del non governo nella stagione appena conclusa. E monta la richiesta di collegialità, di corresponsabilizzazione, di un rapporto più equilibrato tra centro e chiese locali che, con Wojtyla, non è stato affrontato efficacemente. Sono schermaglie, ma rappresentative del fatto che nel cuore, e nella pancia, della Chiesa non c’ è solo nostalgia per il papa defunto.
Giulio Anselmi, 10 aprile 2005, La Repubblica