Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio in più di una occasione hanno invocato la democrazia diretta (che Grillo dice di praticare grazie all’uso del web) come il sistema politico del futuro. Ma siamo sicuri che questa struttura politica sia decisamente meglio della cara vecchia democrazia rappresentativa?
In un recente studio:Democracy, Redistribution and Political Participation: Evidence from Sweden 1919-1938, Björn Tyrefors Hinnerich e Per Pettersson-Lidbom paragonano la capacità redistributiva dei due tipi di democrazia: la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta. In particolare, prendono in considerazione la spesa in welfare pubblico nelle due diverse strutture politiche.
La particolarità della struttura politica della Svezia del primo ‘900 ha consentito a Hinnerich e Pettersson-Lidbom di effettuare un paragone credibile fra i due modelli di democrazia. Infatti, la transizione che la Svezia ha subito nel 1919 ha permesso di avere, simultaneamente, due diversi tipi di democrazia a livello locale.
Storicamente i governi locali svedesi erano delle democrazie dirette; le decisioni venivano prese nel corso di alcuni incontri collettivi ai quali potevano votare tutti gli aventi diritto. Tuttavia, nel 1919, a causa di un cambiamento della legge, tutti i governi locali di oltre 1500 abitanti furono obbligati a adottare un sistema politico di democrazia rappresentativa, mentre i governi locali più piccoli furono lasciati liberi di scegliere fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Il contesto svedese permette quindi di svolgere un’analisi empirica unica confrontando comuni molto simili ma con regole democratiche diverse perché appena sotto o appena sopra la soglia di 1500 abitanti. Certo, il limite è che stiamo valutando l’effetto della democrazia diretta in piccoli paesi (ma questo dovrebbe renderla ancora più appetibile sulla carta).
Le analisi di questo studio dimostrano che, al contrario dalle comuni aspettative, i governi locali con democrazie rappresentative spendono in media fra il 30 e il 70% in più sul welfare sociale verso i più deboli.
Ci sono vari motivi che potrebbero spiegare questo effetto delle democrazie rappresentative; una possibilità è la forza e la capacità di gruppi di portatori di interesse di organizzarsi per risolvere i cosiddetti collective action problems. I risultati dello studio dimostrano che, in una democrazia rappresentativa, la capacità dei lavoratori di organizzarsi collettivamente è largamente superiore che in una democrazia diretta. Addirittura la probabilità della formazione di un sindacato è più alta del 150-250% nelle democrazie rappresentative; non a caso, nel periodo analizzato, la maggior parte dall’assistenza sociale fu diretta verso i disoccupati e le loro famiglie (ovvero le persone rappresentate dal sindacato).
Un’altra spiegazione si può trovare nei diversi tassi di partecipazione alla vita politica nelle due democrazie. Infatti, se da un lato la partecipazione agli incontri collettivi (tipici delle democrazie dirette) non sono cambiati con l’introduzione del suffragio universale nel 1919, dall’altro lato c’è stato invece un notevole aumento di votanti nelle democrazie rappresentative. Questa differenza può essere dovuta al fatto che, in una democrazia diretta, le élite riescono più facilmente ad influenzare il processo decisionale esercitando di fatto il potere politico, data la totale mancanza di partiti a difesa dei più poveri in questo tipo di struttura politica.
Insomma: le assemblee locali in regime di democrazia diretta ricordano un po’ quelle sessantottine, dove tutti sono uguali ma chi siede al tavolo della presidenza è un po’ più uguale degli altri.