Grillo vuole l’agenda 2010 tedesca, ma funzionerebbe?

In Germania si è rivelata un toccasana

Beppe Grillo ha dichiarato oggi alla televisione di Stato tedesca Ard che vorrebbe realizzare anche in Italia le riforme “Agenda 2010”, introdotte in Germania dai socialdemocratici nel 2004, alla base di gran parte del successo teutonico. È un’uscita estremamente promettente per un partito che, finora, ha faticato a proporre un “agenda positiva” in materia di economia, e troppo spesso è stato associato a idee un po’ troppo post-new age tipo decrescita et similia.

Ma cosa sono state queste riforme tedesche? “Agenda 2010” è stato un piano esteso di riforma dello stato sociale e della contrattualistica di lavoro in Germania, introdotto progressivamente tramite una serie di innovazioni pensate da una commissione apposita. Tale commissione era presieduta da Peter Hartz (da cui le riforme hanno preso il nome), direttore del personale di Volkswagen, e radunava trasversalmente esponenti di sindacati, associazioni industriali, società di consulenza e altri ancora, tipo “stati generali” del paese. Ai tempi dei lavori, il cancelliere Spd Gerhard Schröder dichiarò di volersi attenere strettamente ai consigli della commissione, e così fece.

Per quanto riguarda lo stato sociale, prima delle riforme “Hartz” gli assegni di disoccupazione potevano arrivare anche a 32 mesi dal licenziamento. Era diventata abitudine per troppe persone lavorare per un periodo e poi dichiararsi disoccupati ricevendo quasi tre anni di assegni statali nella cassetta dalla posta. L’idea di Hartz è stata quella di passare immediatamente a un sistema che garantisse questo tipo di trattamento privilegiato per soli dodici mesi, elevati a diciotto se il cittadino ha più di 55 anni, rispettando particolari regole in termini di calcolo dell’assegno – più restrittive rispetto a prima. L’assegno è sempre di tutto rispetto: su Wikipedia è presentato un calcolo in base al quale un tedesco che guadagna 5.600 euro al mese, da disoccupato riesce a incassare 2.300 euro – fatti salvi altri tipi di contributo per l’assicurazione medica e per particolari questioni di famiglia.

Le riforme sulla disoccupazione sono state completate dalla trasformazione degli uffici di collocamento in “job center” che aiutano il reinserimento dei lavoratori, almeno nelle intenzioni, anche con corsi di formazione di qualsiasi tipo.

È rimasto poi in vita tutto il mondo degli assegni sociali, In questo caso, per esempio, un single riceve di base circa 380 euro al mese, oltre a un contributo per l’affitto (a Berlino si va generalmente da 370 euro per un single, fino a oltre 700 per le famiglie), il riscaldamento e il condominio. L’assicurazione medica viene coperta interamente dallo stato (si noti: per semplicità, abbiamo deciso di definire “Assegno di disoccupazione” ciò che in Germania si chiama “Arbeitslosengeld I”, e “Assegno sociale” l’ “Arbeitslosengeld II”. Ci è noto il fatto che esiste anche un “Sozialgeld” propriamente detto, destinato a chi non può lavorare).

L’altro aspetto importante della riforma ha riguardato i cosiddetti “mini-jobs”. Sono pensati per chi guadagna un massimo di 450 euro al mese (soglia elevata nel 2013, poiché prima era di 400 euro). L’idea alla base della loro nascita era quella di far “emergere il lavoro nero domestico”: il datore di lavoro sostiene oneri sociali estremamente ridotti.

A febbraio 2012, ogni quattro contratti di lavoro dipendente, uno era regolato con questa fattispecie – in un trend di costante aumento da anni. Circa 5 milioni di tedeschi avevano esclusivamente un contratto da meno di 400 euro, mentre altri 2 milioni ne avevano due, per un totale di 7,45 milioni di occupati (63% donne). Circa 800.000 pensionati avevano un “mini-job”.

A essi si aggiungono i cosiddetti “midi-job”, definizione prodotta dalla perversa fantasia linguistica dei tedeschi, e riferiti a contratti fino a 850 euro al mese (precedentemente erano 800 euro). In questa fascia il datore di lavoro deve iniziare a corrispondere oneri sociali addizionali in base a un calcolo lineare del 4% su 401 euro, fino al 21% su 800 euro. Circa un milione di contratti di questo tipo esistevano in Germania nel 2012.

È bastato questo a far ripartire la Germania? Ovviamente no. Il fatto è che mini- e midi-job sono diffusi principalmente (ma non esclusivamente) nella gastronomia, nei piccoli servizi e nell’accoglienza, e non nella grande industria, dove vigono ancora quasi esclusivamente grandi contratti di categoria. Anche qui, però, i sindacati hanno accettato di rivedere i rapporti con le aziende, e sono stati aggiunti maggiori livelli di flessibilità in merito a mansioni e orari, oltre alla possibilità di derogare con maggior facilità dai contratti unici.

Così, quando si dice che “i salari medi in Germania sono fermi da dieci anni” si dice solo una mezza verità. I salari in media sono bassi, perché ci sono più lavoratori part-time (grazie ai nuovi contratti) e perché adesso molti “disoccupati di professione” hanno un mercato di lavoro. Ciò non toglie che si sia creata una nuova “working class” che sta creando cultura sociale, ma è stata una scelta etica, di cui il governo è consapevole. Però, su 100 persone che lavorano, in Italia gli inattivi sono 111, mentre in Germania ogni 100 attivi ci sono solo 76 inattivi: aiutano le regole più facili in merito ai contratti atipici.

Basterebbero riforme simili a far ripartire l’Italia? Ni. Rivedere i rapporti tra aziende e la casta dei sindacati è sacrosanto, e speriamo che Grillo voglia andare in questa direzione. I mini-job, però, ce li abbiamo già, e si chiamano co.co.pro., o almeno i co.co.pro. vengono usati al posto dei mini-job.

Ma “Agenda 2010” si è collocata all’interno di una riforma ancora più ampia, che ha previsto per esempio una robusta riduzione della tassazione: nel 2004 l’aliquota minima è passata dal 19,9% al 16%, e quella massima dal 48,5 al 45%. A questo si è aggiunta la fortunata posizione della Germania nell’ambio dell’euro: il paese esporta senza che la valuta aumenti eccessivamente di valore, grazie al “peg” con i paesi importatori del Sud.

Senza diminuzione delle tasse, e senza creare condizioni generali per la competitività delle imprese, e senza eliminare monopoli privati e di stato, flessibilizzare il lavoro ancora di più in Italia porterebbe a licenziamenti senza possibilità di riassunzione in nuove imprese. Monopolisti e corporativisti potrebbero semplicemente diventare “più efficienti” aumentando ancora di più il margine di profitto, riducendo i costi del personale, senza che emergano fastidiosi concorrenti. Bisogna prima creare le premesse per fare impresa, per poi porre agevolazioni per flessibilizzare.

Se poi parliamo di riduzione dello stato sociale, è ovvio che la Germania post-Agenda 2010 è ancora molto, ma davvero molto più generosa rispetto all’Italia. Non crogioliamoci nell’illusione che una soluzione importata possa risolvere la necessità di un dibattito drammatico sul futuro del nostro paese, sui sacrifici da prendere, su ciò che vogliamo diventare.

Stefano Casertano e Laura Lucchini sono autori di “Germania Copia e Incolla #2: Le Riforme del Lavoro”, in uscita per GoWare. 

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