Hugo Chávez è stato un Vladimir Putin sudamericano: il rischio per un paese ricco di petrolio come il Venezuela è che potentati privati emergano e diventino più forti dello stato – e Chávez ha fatto in modo che ciò non avvenisse. Se questo ha richiesto di imprimere una direzione autoritarista al paese, il lidér non si è mai fatto problemi. Il petrolio è diventato cosa di stato.
L’unica forma possibile di opposizione alla regola statale era quella borghese. Per questo sono stati impiegati tutti i mezzi per evitare che la classe alfabetizzata e benestante avesse qualsiasi tipo di espressione politica. Quando una decina di anni fa quasi due milioni e mezzo di venezuelani firmarono una petizione contro di lui, la lista dei nomi fu pubblicata (la famigerata “Lista Tascòn”) e per un periodo è stata attivamente usata per l’esautorazione dei firmatari dalle aziende statali.
È stato in quel momento che è iniziata la diaspora della borghesia venezuelana. In Colombia, Argentina, Cile, Messico e Stati Uniti arrivavano i nuovi emigranti espulsi dal sistema venezuelano, sempre più incentrato sulla persona di Chávez e sullo stato. Da parte sua, il presidente ha perseguito un’agenda stretta di petro-statalizzazione, in grado di assicurare al vertice la tenuta del potere, e di escludere la possibilità di emersione di fastidiosi concorrenti. Il petrolio rappresenta la metà delle entrate del governo centrale e il 95% delle esportazioni, e le rendite sono state impiegate per acquisire sostegno sociale.
Chávez si è lanciato all’attacco del settore petrolifero appena ne ha avuto occasione, sia in casa, che fuori. Dopo la nazionalizzazione del petrolio venezuelano nel 1976, l’azienda energetica statale PDVSA operava come “stato nello stato” – e Chavez dal 2002 ha imposto che la compagnia dirigesse almeno il 10% degli investimenti su programmi di sviluppo sociale. I soldi sono veicolati da un fondo statale, le cui azioni non sono controllate dal budget statale. I soldi del petrolio servono a mantenere poi 120.000 lavoratori sul libro paga di PDVA (circa l’1% del totale degli occupati). Il barile ha finanziato programmi educativi e sanitari, ma ha anche fatto in modo che l’impiego pubblico “si gonfiasse oltremisura”, nell’opinione degli analisti. In media negli ultimi dieci anni il Venezuela ha aggiunto 310 addetti al giorno al sistema statale. Secondo alcune stime, circa il 50% degli assunti è stato superfluo.
L’idea di comprare consenso con il petrolio è tipica per uno stato petrolifero. E se i soldi del greggio mancavano, Chávez non si è mai fatto problemi a trovarne da altre parti: prima delle ultime elezioni nell’ottobre 2012, il presidentissimo si è fatto prestare soldi dalla Cina – tanto che l’anno scorso il deficit del paese è arrivato al 7,8%, almeno ufficialmente.
Perché alla fine, che lo si voglia o meno, il Venezuela di Chávez non si è mai riuscito a elevarsi rispetto allo status terzomondista di “paese petrolifero”. Il ritmo della vita politica, sociale, economica è dettato dalla velocità alla quale il petrolio esce dal terreno. Questa sensibilità era percepita fin troppo bene da Chávez, che infatti nel 2007 ha “nazionalizzato” gli asset petroliferi delle aziende straniere. Chávez si comportava da sultano mediorientale, superiore e vicino al popolo. La sua nota trasmissione radiofonica della domenica, “Alò Presidente”, durava “fino a quando Chavez pensava di aver parlato a sufficienza”, secondo una memorabile definizione del New York Times, cioè anche quattro ore. Si comportava come un sultano mediorientale, con gesti inaspettati di generosità ad alto impatto mediatico, come quando ha regalato una casa al suo tremilionesimo follower su Twitter (e poi dicono che Twitter non serve).
Si sostiene che il “chauvismo” possa rimanere nella storia come il peronismo in Argentina. Il problema, però, è che mentre il peronismo si nutre di povertà – che non manca mai – il chauvismo ha come ingrediente fondamentale il petrolio. È un’ideologia che si mantiene in vita finché ci sono barili da vendere. Sarà condannato alla cantina della storia per i limiti stessi della sua tenuta: Chávez lascia un Venezuela in cui, secondo Moisés Naim, «il deficit fiscale è pari al 20% dell’economia, un mercato nero in cui il dollaro è quotato quattro volte di più rispetto al valore ufficiale, un debito dieci volte più grande rispetto al 2003, un sistema bancario fragile e un’industria petrolifera in caduta libera».
Proprio quest’ultimo punto è stato il tallone d’Achille di Chávez: la produzione petrolifera è scesa da del 13% a 2,7 milioni di barili al giorno nel 2011 (ma c’è chi stima anche 2,3-2,5), rispetto a quando ha preso il potere nel 1999. Non è sostenibile per un paese così che la produzione diminuisca. Questo dato, unito all’effetto dei prezzi del petrolio più bassi rispetto alle previsioni, spiega anche perché il Venezuela si sia indebitato così tanto: i programmi sociali finanziati dal greggio non possono essere interrotti, e tagliare la spesa pubblica significa immediata rivolta sociale.
È così che si squarcia il velo del “neobolivarismo” sulla realtà economica del paese. È un bel brand per chi è costretto a crederci in patria, e per chi si costringe a farlo da fuori. Nonostante accurati sforzi di diversificazione verso la Cina, il maggior mercato per il petrolio venezuelano è sempre stato quello degli Stati Uniti. Chavez aveva nazionalizzato gli asset stranieri, ma stava pagando a caro prezzo la scelta, con la diminuzione della produzione. Nel frattempo, su internet girano da tempo foto di capi chauvisti che fanno shopping con le mogli nei migliori negozi dell’Occidente.
Se le ideologie esistono fin quando c’è una potenza alle spalle (che sarebbe del wahabismo senza l’Arabia Saudita?), il neobolivarismo è destinato a tramontare anche all’estero. Come la vicina Bolivia di Evo Morales, che riceve centinaia di milioni di dollari l’anno da Caracas in aiuti. Una destabilizzazione del contatto internazionale potrebbe portare all’instabilità in Bolivia, paese dalla forte frammentazione etnica, che potrebbe avere impatti in tutto il Sudamerica.
In Venezuela il futuro è incerto. La frammentazione etnica è minima, ma in genere uno “stato personale” senza istituzioni stabili generalmente crolla non appena la persona se ne va. S’ingenera una situazione di “pretorianismo” costituita dalla lotta tra gruppi di potere. Che a prendere il potere i militari o i seguaci del partito ancora non si sa. In una situazione simile, il rischio è che le aziende straniere ritirino tutti gli investimenti, mentre l’accesso di capitali freschi dagli USA e dalla Cina potrebbe rappresentare un’ancora di salvezza.
Certo è che se la situazione economica dovesse precipitare a causa della lotta politica, allora Chavez potrà iniziare a essere ricordato con nostalgia dai venezuelani, come l’artefice di una decade felice e inconsapevolmente edonistica. O anche, il chauvismo potrebbe sopravvivere come ideologia di facciata, per il nuovo sistema predatorio che lo sostituirà, con Chávez come padre nobile del sistema petro-statale. Comunque vada, Chávez sarà ricordato. È la vendetta postuma dei grandi dittatori: farsi rimpiangere per i disastri che essi stessi hanno causato.