«Chi pensa che si sarebbe potuto risolvere prima, magari con una transazione, ragiona come se l’Italia fosse ancora una grande potenza». Romeo Orlandi, economista e sinologo all’Università di Bologna e vicepresidente di Osservatorio Asia, non ha dubbi che quella di trattenere in Italia i due marò sia stata una soluzione per mettere un punto fermo a una crisi diplomatica che dura da ormai più di un anno. «Dubito che i governi si guarderanno a lungo in cagnesco sull’onda di questa soluzione che non è il massimo dal punto di vista dell’eleganza ma toglie le castagne dal fuoco anche all’India», spiega ancora Orlandi, che non vede ripercussioni sull’interscambio commerciale tra i due Paesi, che conta 400 aziende e vale 4 miliardi di euro.
Il premier indiano Manmohan Singh ha dichiarato che «attiverà tutti i canali diplomatici per riportare in India i marò». Alcuni commentatori sulla televisione indiana Ndtv hanno ipotizzato possibili ripercussioni sulle relazioni commerciali tra i due Paesi. È d’accordo?
Per quanto riguarda le grandi imprese è evidente che il clima politico generale abbia ripercussioni: le grandi imprese fanno affari in un contesto politico, se c’è un deterioramento se ne potrebbero pagare le conseguenze a meno che non prevalga la logica di tenere separato l’aspetto economico da quello politico. E in questo, bisogna riconoscerlo, l’Asia e l’India sono maestre, basti pensare all’interscambio con la Cina, in crescita nonostante la freddezza delle rispettive diplomazie. In questo senso c’è da chiedersi: a peggoirare i rapporti con il Paese è stata Finmeccanica o i marò? Per quanto riguarda le molte imprese di medie dimensioni che fanno affari con l’India, o quelle che hanno delocalizzato lì la produzione, ritengo che – a meno che non si tratti di beni strategici come gli armamenti o le commesse per i grandi appalti – la situazione rimarrà stabile. Teniamo conto che l’Italia ha una quota irrisoria dell’import indiano, pari all’1 per cento circa. Una quota che è difficile possa essere intaccata. Nel 2012, ad esempio, le esportazioni sono scese del 10% e non certo a causa dei marò.
Quindi si tratta soltanto di schermaglie?
Nel dialogo con l’India non c’è nulla di compromesso. Anche perché l’anno prossimo il Paese andrà alle elezioni generali e dovrà affrontare questa situazione con pragmatismo, e inevitabilmente prevarranno gli aspetti economici. Dubito che i governi si guarderanno a lungo in cagnesco sull’onda di questa soluzione che non è il massimo dal punto di vista dell’eleganza ma toglie le castagne dal fuoco anche all’India: che vantaggio portava, a loro, continuare a detenere due marò?
La campagna elettorale in India è già iniziata?
In India siamo sempre in campagna elettorale: ricordo che quando sono stati arrestati i marò (il 15 febbraio gennaio scorso, ndr) erano in corso le elezioni suppletive nel Kerala, dove ci sono ben 2 milioni di pescatori, ed è chiaro che soffiare sul fuoco del nazionalismo sulla giustizia per i 2 pescatori uccisi portava voti. Che l’India abbia voluto utilizzare questa vicenda in senso nazionalista è indubbio, ma ora la propaganda rischia di diventare un’arma spuntata, sgonfiandosi in anticipo rispetto alla scadenza elettorale.
Molti si domandano: perché proprio ora e perché un esecutivo uscente?
Penso che il motivo principale è che la posizione negoziale italiana era molto debole per due motivi: la propaganda interna che ha irrigidito le posizioni indiane e la debolezza italiana nel contesto internazionale. Difficile far valere le proprie ragioni nei confronti di un Paese più importante economicamente, in crescita e ostinato.
Paradossalmente, dunque, l’attuale è stata la soluzione migliore.
Ora si è presentata, con la licenza concessa per votare alle elezioni, l’opportunità migliore per trovare una soluzione, giusta o sbagliata che sia. Appartiene alla diplomazia fare un atto contestabile e poi lasciare a chi verrà dopo la soluzione, tenendo conto che chi verrà dopo non è responsabile della decisione. Chi pensa che si sarebbe potuto risolvere prima, magari con una transazione, ragiona come se l’Italia fosse ancora una grande potenza.