Una settimana fa il Financial Times ha pronunciato la propria sentenza: «Gli americani hanno vinto la guerra, gli iraniani hanno vinto la pace e i turchi hanno vinto gli affari». Affermazione un po’ troppo perentoria, forse, ma che contiene una buona dose di verità.
A dieci anni di distanza dall’intervento della “coalizione dei volenterosi”, scattato all’alba del 20 marzo 2003, il dibattito sulle conseguenze della guerra in Iraq resta aperto. Qualcuno potrebbe sostenere che, dopo la fine delle operazioni e il conflitto tra sunniti e sciiti, abbiano vinto anche gli iracheni. Se si guardano i dati macroeconomici si scopre che l’Iraq è cresciuto più di qualsiasi altro Paese arabo negli ultimi cinque anni. Nel solo 2012 il Pil di Bagdad ha compiuto un balzo in avanti del 10,5 per cento e le previsioni per il futuro sono ancora più rosee. La banca centrale irachena stima un aumento del 9,4 per cento annuo fino al 2016. Un giudizio condiviso dalla banca d’affari americana Merrill Lynch, secondo cui nel 2013 l’economia crescerà più tra il Tigri e l’Eufrate che in qualsiasi altra area del pianeta.
Naturalmente queste sorti magnifiche e progressive hanno un chiaro motore, il petrolio. L’Iraq è il quarto Paese al mondo per riserve di oro nero. L’anno scorso sono stati prodotti 3,2 milioni di barili al giorno, ma l’obiettivo è molto più ambizioso, raggiungere gli otto milioni e mezzo di barili entro il 2017. Anche in seno all’Opec Bagdad ha cominciato a fare la voce grossa. A fine 2012 l’organizzazione che riunisce dodici Paesi esportatori di petrolio si è riunita, prorogando l’incarico del segretario generale, il libico Abdallah El Badri, e confermando il tetto di output, fissato a 30 milioni di barili al giorno. Ma all’interno del cartello è emersa una spaccatura. Mesi fa l’Arabia Saudita voleva il mantenimento di una quota alta di produzione. Adesso, invece, è Riyadh a spingere per un rallentamento dell’output, prevedendo un forte calo mondiale dei prezzi – per via dell’impatto dello shale oil e dello shale gas – mentre Bagdad non intende arrestare la propria corsa.
La crescita irachena, tuttavia, appare squilibrata, lontana da qualsiasi logica redistributiva. In un Paese che produce ogni giorno petrolio per un valore di 300 milioni di dollari, il trenta per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e in certe zone la percentuale sale addirittura a cinquanta. Le disuguaglianze sociali sono molto forti, soprattutto in città. Il settarismo è tornato a minare una sicurezza che sembrava ormai conquistata, grazie alla strategia dell’allora capo delle forze militari americane, il generale Petraeus, che aveva posto fine alla guerra civile tra sunniti e sciiti. Invece le milizie sono tornate a spadroneggiare, il concetto di appartenenza nazionale, in uno Stato creato a tavolino dalle potenze coloniali, non si è mai imposto. Il premier Nouri al Maliki, sciita, è accusato dai sunniti di autoritarismo e le violenze settarie hanno ripreso ad insanguinare il Paese. L’ex vicepresidente, il sunnita Tariq al Hashemi, è stato condannato a morte in contumacia per terrorismo. Era riuscito a fuggire dal Paese, grazie al sostegno dei curdi. Già i curdi.
Tra gli iracheni, sono loro i maggiori beneficiari del conflitto. Nel Kurdistan si trova la maggior parte delle risorse petrolifere e i leader locali sono stati abili nel mettere a frutto questa ricchezza. L’area curda, che gode costituzionalmente di una larga autonomia, si comporta di fatto come uno Stato indipendente. Il governo regionale di Erbil è stabile, a differenza di quello di Bagdad, e questo rappresenta un elemento chiave per gli investimenti. Così da qualche tempo i curdi, lamentandosi dell’esigua fetta di torta a loro destinata, in relazione ai giacimenti posseduti, hanno cominciato a stipulare accordi con Paesi e multinazionali stranieri, senza il nulla osta del governo centrale. Una mossa che ha irritato non poco Bagdad. Gli strali di al Maliki si sono scagliati anche contro la Turchia, definita uno “Stato ostile” ed accusata di interferire negli affari interni di un vicino. Perché i contratti di sfruttamento energetico, permessi di trivellamento e concessioni varie, hanno visto spesso la firma congiunta di curdi e turchi. Erdogan tratta direttamente col governo regionale. Le cifre sono eloquenti: il settanta per cento dell’export di Ankara in Iraq prende la via del Kurdistan, dove operano circa mille aziende della mezzaluna. La Turchia ha beneficiato largamente della ricostruzione post-bellica. Nell’ultimo decennio le esportazioni sono cresciute del 25 per cento l’anno, nel solo 2012 sono stati siglati progetti per 3,5 miliardi di dollari e tutto fa pensare che la domanda irachena di merci turche sia destinata ad aumentare.
Se nelle strade di Bagdad il peso economico di Ankara è immediatamente percepibile, sul piano politico, però, è l’Iran ad esercitare la propria longa manus sul governo di al Maliki. Dopo la caduta di Saddam gli sciiti, maggioranza nel Paese, hanno cominciato a svolgere un ruolo proporzionale alla loro forza numerica. Messa in archivio la lunga guerra degli anni Ottanta, Iran e Iraq hanno iniziato a marciare nella stessa direzione. La situazione politica, tuttavia, è alquanto fluida. Teheran soffre il peso dell’inflazione, causata dalle sanzioni votate dalla comunità internazionale in risposta al programma nucleare, e vive un intenso conflitto interno tra i conservatori legati a Khamenei e gli uomini vicini al presidente Ahmadinejad. Anche il mondo sciita iracheno è in continua evoluzione. Lo stesso Moqtaba al Sadr, ex spauracchio degli americani, con il suo esercito del Mahdi, ha deciso di assumere un profilo molto più moderato. Come in tutto il Medio Oriente, anche in Iraq il confronto è tra sunniti e sciiti e la guerra civile a Damasco non può non avere conseguenze su Bagdad. Al confine tra i due Paesi, infatti, si sta verificando una pericolosa saldatura, di matrice sunnita, tra il gruppo jihadista siriano Jabhat al Nusra e la branca irachena di Qaida.
In questo contesto si inserisce la presenza degli Stati Uniti. Come ha rivelato il Wall Street Journal, gli Usa hanno aumentato le operazioni della Cia in Mesopotamia, assegnando all’intelligence il ruolo che durante la guerra apparteneva alle squadre speciali del Pentagono. L’Iraq torna a preoccupare Washington, dove il dibattito tra chi rivendica le ragioni dell’intervento militare e chi lo considera un tragico errore non si è mai placato. Al di là dei punti di vista, ci sono le nude cifre, presentate da una ricerca del Watson Institute of International Studies della Brown University, pubblicato alla vigilia del decennale. Il costo totale per le casse americane è stato di 1.700 miliardi di dollari, a cui bisogna aggiungere 490 miliardi destinati ai veterani di guerra. Il conflitto ha lasciato sul campo più di 189.000 vittime, tra cui 134.000 civili iracheni e 4487 soldati a stelle e strisce.
Le polemiche riguardano anche i costi della ricostruzione, in cui gli Usa hanno investito 60,5 miliardi di dollari. A causa della corruzione, piuttosto diffusa tra il Tigri e l’Eufrate, in fase di subappalto i prezzi delle forniture sono lievitati e Washington ha dovuto allargare i cordoni della borsa. Il report “Learning from Iraq”, realizzato da Stuart W. Bowen Jr., l’ispettore generale incaricato della ricostruzione, ha sottolineato tutti gli errori strategici compiuti dagli Stati Uniti. Sono state prese troppe iniziative, i budget sono stati regolarmente superati e gli iracheni non sono stati mai coinvolti nelle scelte, tanto che adesso, dopo che gli americani hanno lasciato il Paese, molti progetti – uno su tutti, il tanto reclamizzato ospedale per bambini di Basra – sono rimasti incompiuti. Secondo James Jeffrey, ambasciatore di Washington in Iraq dal 2010 al 2012, grazie alla ricostruzione il sistema sanitario, l’industria petrolifera e gli impianti energetici hanno elevato i loro standard, ma “troppo denaro è stato speso con risultati troppo scarsi”.
Bowen suggerisce di cambiare approccio, focalizzandosi su piccoli progetti e risolvendo anzitutto la questione della sicurezza, premessa necessaria dello sviluppo. Nel novembre 2011 Barack Obama ha completato il ritiro già pianificato da George W. Bush, scegliendo di non lasciare truppe sul campo. Gli Usa, infatti, non sono riusciti a trovare un accordo con al Maliki sull’immunità da garantire ai propri soldati. Una decisione su cui Leon Panetta, ex capo della CIA e del Pentagono, ha espresso recentemente qualche riserva. Il pericolo è che Washington non riesca ad esercitare alcun ruolo, nel momento in cui l’Iraq è nuovamente il teatro di violenze settarie, tra sunniti, sciiti e, forse, in futuro, curdi. D’altro canto, la scelta di inviare agenti dell’intelligence a caccia di jihadisti, a fianco dei reparti iracheni, non è priva di rischi. Le squadre speciali di Bagdad, infatti, rispondono ad al Maliki, che se ne serve spesso per regolare i propri conti settari.