I nostri uomini-jet dell’atletica nascevano dalla strada. Narrano che Pietro Mennea, all’età di 15, sfidò in velocità sui 50 metri una Porsche e un’Alfa Romeo 1750. Alla fine della corsa, si era guadagnato le 500 lire per un cinema. Livio Berruti, altra leggenda dello sport italiano, raccontò della sua infanzia a Stroppiana, in Piemonte, dove “allora erano le gimkane con la bici lungo i vialetti del cimitero, i voli paurosi con i pattini a rotelle, la prima scoperta d’esser veloce, inseguendo i gatti e acciuffandoli. Era quell’atteggiamento brado di chi vive in campagna, la libertà sfrontata lungo i canali e nei prati”. Non solo uomini. Ondina Valla, la nostra donna-jet a Berlino nel 1936, a 14 anni era già nella Nazionale. Si cimentava in 5 discipline contro il volere della madre e del Vaticano: entrambi vedevano meglio le femmine a casa, non sulle piste. Meno male, per Ondina e per lo sport italiano, che il fascismo disse “me ne frego” e la mandò ai Giochi, dove trionfò nello stesso stadio di Jesse Owens.
Storie di anni e tempi diversi. Ma se il caso di Ondina Valla è legato allo sport di regime, Berruti e Mennea hanno in comune una tradizione che ancora oggi resiste in Italia: quella dell’atletica preparata dalle forze armate. Mennea ha fatto per anni parte del gruppo sportivo dell’Aeronautica Militare, mentre Berruti ha corso per le Fiamme Oro, il braccio atletico della Polizia. Grazie alla preparazione fornita, oltre alle doti naturali come la progressione (caratteristica che lo accomuna a Carl Lewis), Mennea ha potuto sfondare per primo il muro del 19’ 72” sui 200 metri. Così come Livio Berruti potè vincere l’oro nella stessa disciplina ai Giochi di Roma nel 1960, guadagnando come premio una Fiat 500.
Ora, se vinci ci sono le borse di studio del Coni. Che supporta soprattutto Fiamme Oro, Aeronautica e Finanza, non a caso i tre gruppi sportivi militari più grandi in Italia, per quanto riguarda l’atletica leggera. Un impegno che in generale è aumentato sempre più. Un sistema dentro il quale sono nati e cresciuti atleti come gli avieri capo Andrew Howe (che però ormai si è specializzato solo nel lungo dopo la carriera nei 200) o Manuela Levorato (detentrice dei primati italiani nel 100 e 200 metri). Ma soprattutto, un sistema che l‘anno scorso ha ricevuto dal Coni, tramite il Ministero del tesoro, 200 milioni di euro e che permette agli atleti di allenarsi, oltre che ricevere vitto e alloggio. In questo modo, le società dilettantistiche restano al palo, perché ricevono meno soldi e sono costrette a cedere i propri campioni allo Stato. Il tutto nonostante la Federazione dell’atletica leggera – l’organo che presiede le società di dilettanti – sia sponsorizzata dalla Kinder, nell’ambito di un programma pensato per avvicinare i bambini in età scolare alla pista e alle fosse. A meno che le società stesse non abbiano un presidente capace di intrecciare rapporti con l’elite politico-economica romana. Ogni riferimento a Giovanni Malagò e alla Canottieri Aniene è puramente voluto.
Un sistema, quello dello sport di Stato italiano, per certi versi simile a quello statunitense. Dove al posto dello Stato ci sono le università. I grandi poli dell’istruzione superiore fanno a gara a strapparsi i futuri campioni di molti sport, dal football all’atletica passando per il soccer (quello che noi qui chiamiamo calcio). Gli osservatori universitari girano per i campionati sportivi delle High School in cerca di promesse dello sport sulle quali investire, offrendo loro la possibilità di allenarsi in cambio di una borsa di studio che permetta loro di iscriversi ai corsi. Qui nascono i jet Usa che infiammano le piste olimpiche. Una tradizione che risale ai tempi di Jesse Owens. Il futuro campione olimpionico di Berlino impressionò ai campionati studenteschi del 1933. Un osservatore della Ohio State University lo avvicinò: “Ragazzo, vuoi diventare un campione?”. Per Jesse, che fino a quel giorno per pagarsi le gare lavorava in un negozio di scarpe, si aprirono le porte dell’università. Potè così cominciare a lavorare sodo per far andare di traverso a Hitler i Giochi del 1936. Lo stesso accadde a Carl Lewis, che la leggenda vuole giocasse nella sabbia della fossa del salto in lungo, dove i genitori lo lasciavano scorazzare. Carl impressionò già nei traials giovanili e venne scelto dall’Università di Houston, dove oltre che studiare ebbe l’occasione di perfezionare la tecnica e quell’aria da spavaldo che gli farà un giorno dire “Gli altri si allenano, io sono nato perfetto”.
Negli Usa, a differenza del passato, oggi è molto forte è la presenza economica degli sponsor tecnici. Basti solo pensare che due recenti uomini-jet come Maurice Green e Tim Montgomery hanno corso per la Nike non solo come personaggi-immagine, ma come atleti tesserati per una società sportiva creata ad hoc dal marchio del ‘baffo’. Solo per Londra 2012, la Nike ha investito 100 milioni di sterline per vestire la nazionale di atletica statunitense: un modo per aggredire il mercato europeo dominato dall’Adidas, grazie anche al ritorno d’immagine delle 104 medaglie complessive vinte dagli Usa. “Se devi mettere un cartello per spiegare chi è, allora l’uomo-sponsor che hai scelto non è quello giusto. Con i grandi atleti questo problema non si pone: l’atleta riesce a parlare ai fan sportivi e allo stesso tempo a raggiungere anche la casalinga, che non lo ha mai visto in azione ma che lo conosce benissimo”, dice Erich Beting, esperto di marketing dello sport. E grazie a borse di studio e sponsor, gli atleti arrivano a gareggiare da tutto il mondo. Anche dalla patria di Bolt.
“Noi a spolpare Mennea, loro con nuovi muscoli sempre a disposizione”, scriveva Emanuela Audisio per Repubblica nel 2009. ‘Loro’ sono i giamaicani: Asafa Powell, Merlene Ottey, Donovan Bailey solo citarne un paio. Oltre al Re Bolt, chiaro. Anche qui, nel Paese di Bob Marley, un aneddoto: quando atterri all’aeroporto di Kingston, ad attenderti c’è il poster del 4 volte campione olimpico. Lì lo sprint è religione. E voglia di riscatto. Mentre i nostri jet faticano a sfondare, oppressi da un pubblico che chiede in pratica solo calcio, in Giamaica a farla da padrona è la corsa, a parte quella volta che quattro ‘sconsiderati’ decisero di guidare un bob a Calgary (e comunque venivano dalle corse anche loro). Si corre per andare e venire da scuola, si corre per fare bella figura davanti alle famiglie che affollano i ‘Boys and Girls’, i meeting di atletica dove tutti vogliono stare ai blocchi. Si corre per sfuggire alla malavita dei quartieri disagiati. Si corre per andare in America e sognare i Giochi, come Veronica Campbell Brown, che negli Usa si è trasferita per poi vincere l’oro ad Atene e Pechino.
Don Quarrie, grande sfidante di Mennea negli anni Settanta, un anno prima dei Giochi di Londra: “La differenza tra ieri e oggi è che prima arrivavamo in finale, ora le vinciamo. Per questo abbiamo più visibilità. E non intendiamo smettere, sono già pronti i ricambi per Londra 2012. La Giamaica investe e domina anche a livello junior”. Capito?