La decisione della Francia di prolungare la permanenza della truppe in Mali è dovuta a una seria constatazione strategica: il territorio non potrà essere messo in sicurezza se non prima di anni di controllo militare. Il rischio di conflitti interetnici, e addirittura intertribali, è molto alto. Manca, cioè, ancora quel soggetto “monopolizzatore della violenza” in grado di garantire la sicurezza diffusa. Pesanti sono anche le incognite sui fattori d’influenza esteri, che potrebbero stimolare ulteriormente i settarismi.
Le rivolte arabe stanno esercitando un impatto destabilizzante su tutto il quadrante africano anche oltre il Maghreb: la crisi degli ostaggi in Algeria, gli scontri in Libia attorno all’impianto Eni, e tutte le questioni mai risolte dei due Sudan, della Somalia, e dei nuovi movimenti islamisti, non possono più essere contenute dai vari nazionalismi arabi sulla costa del mediterraneo. Nel bene e nel male, la compagine Gheddafi-Mubarak-Ben Ali rappresentava un elemento di stabilità sovra-etnico, in grado di contenere le rivolte e distribuire la ricchezza, fino a quando è stato possibile.
La decisione francese d’intervenire in Mali è stata la prima in una serie di operazioni che la nuova instabilità renderà necessarie. L’esperienza militare francese in Mali dimostra che un intervento internazionale può rispondere contemporaneamente a scopi morali e all’interesse nazionale del paese che agisce. Il Mali ha bisogno di aiuto per mantenere la sicurezza ed evitare una guerra civile lunga e pericolosa. Il movimento per l’indipendenza del Nord del paese, una regione denominata “Azawad”, aveva iniziato le proprie attività negli anni Novanta per iniziativa dei nomadi Tuareg, e si era rinforzato con l’accesso di falangisti e armi dalla Libia. Nel marzo del 2012 un colpo di stato aveva portato una giunta militare al governo nella capitale del Mali, Bamako, con la scusa che non si stesse facendo abbastanza per combattere la ribellione. Il paese stava per cedere, sotto gli attacchi delle orde islamiste.
Se, come sembra, l’intervento francese sta riuscendo, non c’è niente di meglio che i maliani possano sperare. La ribellione islamica non si faceva problemi ad adottare gli strumenti più beceri di dominio sociale, incluso il tradizionale taglio di arti e dita in caso di accuse di furto più o meno provate. Secondo quanto riporta il New York Times, la gente nelle regioni liberate festeggia. Preferiscono i francesi agli islamisti – il che lascia anche intendere quanto possano essere sgradevoli gli islamisti.
Non possiamo però trascurare anche l’aspetto dell’interesse nazionale francese. Il Mali è un corridoio di collegamento importante tra Nord Africa e Africa Subsahariana. Attorno ci sono petrolio e gas (Nigeria, Libia, Algeria) e anche uranio (Niger e Mali stesso), che per il mix elettrico della Francia (79% dell’elettricità da centrali nucleari) è una risorsa chiave – a parte i tanti altri minerali presenti. È per questo che, con francesissimo basso profilo, insieme alle 2.000 truppe intervenute in Mali, forze speciali sono state inviate a proteggere le miniere di uranio in Niger.
L’esperienza storica dimostra che una forza ribelle con accesso a risorse naturali è in grado di rendere un conflitto civile molto violento e lungo. In Angola, per esempio, la possibilità dei ribelli dell’UNITA di vendere diamanti ha rappresentato un eldorado per trafficanti di armi da tutto il mondo durante la guerra civile durata più di 26 anni. L’uranio, contrariamente a quanto si pensi, è una risorsa trasportabile, pur con le dovute cautele. Per questo, come “possibili conseguenze militari” è molto più pericoloso del gas, che necessita di complesse infrastrutture per il trasporto. Potenzialmente, è anche peggio del petrolio: un fusto di uranio “yellowcake” costa attualmente circa 50.000 dollari, contro il centinaio di dollari di un barile di petrolio.
La metà dell’uranio francese proviene dalla Russia: rinunciare all’approvvigionamento del Niger avrebbe rappresentato un problema anche in chiave geo-strategica europea. C’è poi una conseguenza politica globale: avendone la possibilità, forze estremiste in controllo di uranio e prodotti affini potrebberlo venderlo ad amici dalle convinzioni politiche affini. Per esempio, un Niger islamista faciliterebbe l’approvvigionamento nucleare dell’Iran. Creare un corridoio commerciale in Africa Subsahariana non è un problema insormontabile: l’Iran ha già ha dimostrato di poter contare sul Sudan per le spedizioni di armi ad Hamas a Gaza.
Sul piano militare, era poi opportuno stroncare la rivolta islamista, perché essa ha il potenziale di sovvertire gli equilibri politici della regione. Anche se Libia e Mali sono separate da un tratto desertico di 3.000 chilometri, ciò non ha impedito che militati libici prendessero parte alla rivolta sotto la guida Tuareg. Franchising di Al Qaeda son presenti in altri paesi del quadrante. Si parla di una macro-regione battezzata “Sahelistan” in preda all’anarco-islamismo, con una superficie maggiore rispetto a tutta Europa. Il problema degli islamisti è particolarmente grave in Nigeria, dove il gruppo “Boko Haram” si è fatto molto più ambizioso negli scorsi anni. La Nigeria ha spedito 1.200 soldati ad affiancare le truppe francesi, con l’obbiettivo secondario di bloccare i canali di sostegno estero a Boko Haram.
Se François Hollande gioca a fare il Sarkozy, è perché l’opportunità di un intervento militare va oltre all’interesse politico: risponde all’interesse nazionale. C’è un disegno generale in base al quale la scelta di dove e come intervenire non si basa solo su giuste questioni di etica, ma anche su cosa serva al paese. La Francia può permetterselo non solo per la coerenza del sistema nazionale, ma anche per l’attenzione con cui ha creato una forza d’intervento adatta agli scenari contemporanei. Il paese non ha molti soldati: le forze armate sono state ridotte in vent’anni da quasi 550.000 a 227.000 unità. Tali unità sono però ben addestrate ed equipaggiate, e hanno collezionato preziose esperienze sul campo: dai primi anni Novanta sono intervenute una dozzina di volte in Africa. La Francia militare è presente anche in Chad con 950 unità, sempre per evitare il debordamento di conflitti dai risvolti estremisti sui confini del Niger (in questo caso si tratta della crisi sudanese). Anche in Costa d’Avorio, confinante con il Mali, sono presenti 460 soldati francesi.
La Francia è riuscita a ristabilire un modello militare-politico perfetto per le sue ambizioni economiche. Nonostante una presenza di 1.950 soldati in Afghanistan, ha scelto scenari d’intervento “facili”, che potessero pagare un dividendo economico già nel breve termine. L’idea di una forza d’intervento europea s’allontana sempre di più: i successi in Libia e in Mali dimostrano che l’interesse nazionale è più forte di quello continentale. Quest’ultimo, anzi, sembra proprio non esistere.