«La Germania ha sbagliato nell’ignorare che l’Europa stava ritornando nella recessione, trascurando l’impatto dell’austerity sul ciclo economico, che è stata superiore del previsto». È quanto sostiene Ugo Arrigo, professore di Scienza delle Finanze all’Università di Milano Bicocca, che sui grillini dice: «Il loro ruolo è costringere chi propone il governo, quindi il Pd, a varare un esecutivo in grado di fare riforme economiche».
Il Guardian ha scritto qualche giorno fa che il 25 febbraio sarà ricordato come il giorno della fine delle politiche di austerità europea per il risanamento dei conti pubblici. È d’accordo?
Sono d’accordo. Il voto italiano dimostra che le politiche di austerità propagate, supportate e imposte dalla Merkel non possono andare avanti. Di più, se portate avanti in maniera acritica cambiano il quadro politico, nel senso che sono incompatibili con governi duraturi. L’insuccesso elettorale di Monti era inevitabile, come si può chiedere il consenso a chi hai tassato? C’è poi un problema di tempi di reazione: l’austerity in versione Merkel era stata pensata prima che l’Europa ripiombasse in recessione. Nel 2010 non avrei detto che non stava in piedi. Allora infatti si trattava di capire quanto bisognasse restringere i disavanzi di bilancio degli Stati quindi si poteva essere in disaccordo sulla rapidità di rientro ma non che a fine recessione i disavanzi non dovessero essere attenuati. La Germania ha sbagliato nell’ignorare che l’Europa stava ritornando nella recessione, trascurando l’impatto dell’austerity sul ciclo economico, che è stata superiore del previsto. È possibile muovere leve diverse per attuare l’equilibrio di bilancio, alzando le aliquote fiscali e diminuendo la spesa pubblica, ma nei Paesi dove debito e deficit sono elevati tali misure non fanno che accentuare la recessione con l’effetto di non avere il gettito necessario. Il modello tedesco era “scambiare il miglioramento dei bilanci con un attenuamento della crescita”, ma nel tempo si è trasformato in “accettare grandi effetti recessivi per piccoli risanamenti”. In Italia abbiamo un disavanzo del 3%, ma Monti a fine dicembre 2011 prevedeva un disavanzo all’1,2%, nello stesso tempo la riduzione del Pil attesa per il 2012 era dell’1,2%, invece è stata pari al 2,4 per cento. Da notare che il combinato disposto delle manovre di Tremonti e Monti ha portato a un modestissimo miglioramento del disavanzo, dal 3,8 appunto al 3 per cento.
Ha senso mantenere bassa l’inflazione in tempi di recessione?
L’Europa ha subito due tipi di recessione: quella del 2009 era intensa ma non prolungata, la seconda ondata invece è stata meno intensa ma ora è prolungata e rischia di diventare una depressione permanente in cui il Pil non risale più. In questo contesto, se c’è una recessione l’inflazione non può essere un target. La Germania si porta dietro l’ossessione dell’inflazione dai tempi della repubblica di Weimar, quando c’era sì l’iperinflazione, ma anche – e nessuno se lo ricorda – 7 milioni di disoccupati. Se anche l’inflazione fosse più alta, essa aiuterebbe i debiti pubblici a sostenersi e sarebbe insignificante dal punto di vista dell’equilibrio macroeconomico.
La Bce, soprattutto nel corso della presidenza Draghi, ha chiesto ai governi misure per rilanciare la crescita e per aprire i mercati alle liberalizzazioni contro il rischio balcanizzazione. È probabile che lo ripeterà alla consueta riunione del consiglio direttivo questo giovedì. È il momento giusto per le liberalizzazioni?
Rispondo con una considerazione: c’è un’enorme differenza tra i singoli Paesi con alte tasse, alta spesa pubblica e consistente peso dello Stato nell’economia, come i Paesi scandinavi e quelli del Sud Europa. Perché i primi hanno i bilanci in sostanziale pareggio e i secondi no? La differenza è l’efficienza del settore pubblico, cioè quando la spesa si traduce in servizi al cittadino e quando no. Qui ci viene in aiuto la metafora del secchio bucato dell’economista Arthur Okun, secondo cui una parte delle risorse prelevate dai cittadini con le tasse si perde sempre per strada, il punto è che il secchio italiano non è bucato, è sfondato. È qui che bisogna correggere il tiro.
Persino il capo economista di Goldman Sachs, Jim O’Neill, vede di buon occhio il M5S in un’ottica di riforma del Paese.
Il loro ruolo è costringere chi propone il governo, quindi il Pd, verso un esecutivo in grado di fare riforme economiche perché semplicemente non può permettersi di non fare. Tuttavia, non mi sembra che i grillini abbiano una concezione economica completa di cosa deve fare lo Stato, cosa il mercato e come essi debbano interagire nella società. Mi sembra al contrario che Grillo abbia una mentalità pre-industriale che non contempli il progresso. Ci sono molte idee buone come la riduzione dei costi della politica e la tutela dei risparmiatori, ma il referendum sull’euro è una scemenza. Per il semplice fatto che senza l’euro saremmo falliti: l’euro ci ha fatto un regalo annuale da 100 miliardi di spesa pubblica in meno a servizio degli interessi, che sono scesi dal 12 al 4% con un rapporto tra debito e Pil che oggi è praticamente uguale a quello di metà anni ’90.
Intanto in Germania il Bundesrat, il Senato dei Lander, ha bloccato il Fiscal Compact tirando uno schiaffo al ministro delle Finanze Wolfgang Schauble. Cambierà qualcosa anche per la Cina d’Europa, in vista delle elezioni di settembre?
La mia impressione è che grandi cambiamenti da qui alle elezioni non ce ne saranno. Certo, la Germania si è resa conto che non può prosciugare la ricchezza dei Paesi dove loro esportano perché una volta prosciugata la capacità di produrre reddito essi non hanno più soldi per comprare l’export tedesco. Poi il fatto stesso che l’Italia sia politicamente così instabile impedisce cambiamenti radicali. Al contrario, un governo forte avrebbe potuto negoziare un’attenuazione delle politiche di rigore.