La mimosa per le donne? La inventarono due comuniste

Teresa Mattei e Rita Montagnana vollero un fiore poco costoso

Quando seppero che Luigi Longo, l’8 marzo del 1946, voleva regalare delle violette alle compagne di partito, Teresita Mattei e Rita Montagnana gli suggerirono un fiore più povero, più diffuso. Che fiorisce nei primi giorni di marzo, non ha un costo eccessivo ed è alla portata di tutti. Insomma, più di sinistra: la mimosa. Dietro l’invenzione del fiore-simbolo della Giornata internazionale della donna ci sono due donne appunto. Due partigiane protagoniste delle lotte femminili all’interno del Partito comunista italiano del dopoguerra. Due figure che, per motivi diversi, si scontreranno con l’uomo numero uno del Pci, Palmiro Togliatti. 

Una, Teresa Mattei, detta Teresita, era nata a Genova nel 1921. Antifascista sin da giovanissima, nel 1938 viene espulsa da tutte le scuole del Regno per aver rifiutato di assistere alle lezioni in difesa della razza. Partecipa alla lotta di liberazione di Firenze e a lei e al suo gruppo combattente pare essersi ispirato Roberto Rossellini per l’episodio fiorentino di Paisà. Negli anni della resistenza conosce Bruno Sanguinetti, figlio del magnate dell’industria alimentare Arrigoni, con il quale organizza l’attentato a Giovanni Gentile, che lei conosceva dai tempi dell’università. «Per fare in modo che i gappisti incaricati dell’agguato potessero riconoscerlo», ha raccontato in seguito, «alcuni giorni prima li accompagnai all’Accademia d’Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò». 
 

L’altra figura, Rita Montagnana, nome in codice Anna, torinese di nascita, discendeva da una grande famiglia ebrea di tradizioni socialiste. A quattordici anni, dopo la morte del padre, va a lavorare in una sartoria con l’obiettivo di imparare un lavoro manuale. Da subito aderisce agli scioperi delle sarte torinesi e da qui comincia il suo impegno in difesa delle lavoratrici, muovendosi tra il circolo femminile «La Difesa» e i comitati regionali femminili. Fino a diventare rappresentante delle comuniste italiane alla seconda conferenza femminile internazionale del 14 giugno del 1921 a Mosca. È in queste circostanze che conosce Palmiro Togliatti, il Migliore, allora alla guida della macchina del partito, con il quale si sposa nel 1924.

Le strade di Teresita e Anna si incrociano proprio nelle fila del Partito comunista italiano. L’una è la moglie del leader massimo, l’altra una delle più giovani militanti. Negli anni Trenta la Montagnana aveva seguito Togliatti a Mosca, diventando una delle poche donne a frequentare la scuola leninista. Rientra in Italia nel 1944 e poco dopo pubblica i suoi Ricordi dell’Unione Sovietica. Più che una scrittrice, però, è una donna d’azione. E come già aveva fatto in Francia Julie Marie (Jeanette) Vermeersch, compagna di Maurice Thorez, assume con entusiasmo la leadership dell’organizzazione femminile del partito.

Teresita invece aderisce al Pci solo nel 1943, diventando per tutti la “partigiana Chicchi”. Dopo la guerra, si presenta alle elezioni per l’Assemblea costituente e, a 25 anni, è la più giovane deputata in Parlamento. Ovviamente tra i banchi del Pci. Appassionata e combattiva, è lei a firmare la versione definitiva dell’articolo 3 della Costituzione sull’uguaglianza di tutti i cittadini.

Un’esperienza comune, quella all’interno del partito (Rita Montagnana è anche l’organizzatrice della scuola nazionale del Pci), che fa trovare Teresa e Rita fianco a fianco nell’Unione donne italiane, presieduta proprio da Rita fino al 1947. Al momento della fondazione, nell’ottobre del 1945, le donne tesserate erano già 25mila. Teresa è una delle principali organizzatrici del primo congresso di Firenze. Secondo uno schema concordato da Togliatti con Georgi Mihajlov Dimitrov a metà degli anni Trenta, l’organizzazione femminile del partito avrebbe dovuto sfociare in una struttura aperta alle donne di tutte le forze politiche antifasciste. Per questo, nell’autunno del 1944, Rita Montagnana invita Angela Cingolani, rappresentante delle donne cattoliche, ad aderire all’Udi. Ma la risposta che riceve è un secco no.

Nonostante il rifiuto delle democristiane, le dirigenti comuniste e socialiste si fanno sentire da subito nella battaglia in favore dei diritti delle donne. «Largo dunque fin da oggi alle donne nei posti di governo», avrebbe chiesto da subito Rita Montagnana, «largo alle donne nelle amministrazioni comunali, giusta retribuzione del lavoro femminile, tutte le vie del lavoro e del sapere aperte alle giovani». Il 30 gennaio del 1946 il Consiglio dei ministri approva la legge che dà alle donne italiane il diritto di voto. È una grande vittoria per l’Udi. Per Rita e per Teresa. L’occasione giusta per festeggiare in grande la festa della donna. Con un nuovo simbolo. Magari un fiore. 

Luigi Longo, futuro segretario del partito, era allora responsabile delle organizzazioni di massa del Pci. Teresa faceva invece parte del Comitato direttivo di supervisione dell’Udi. Durante uno degli incontri viene avanzata la proposta di fare dell’8 marzo la festa delle donne sul modello francese. Si discute molto dell’evento, vengono analizzati i modelli degli altri Paesi. E infine si cerca di accordarsi sul nuovo simbolo. Le donne socialiste premono per le violette o le orchidee. Ma sono fiori troppo sofisticati e non sono facilmente reperibili in Italia a marzo, mentre intorno la campagna romana profumava tutta di mimosa. Teresa Mattei e Rita Montagnana proposero la mimosa come simbolo delle donne italiane. Un fiore povero, stagionale, bello ma modesto. Di sinistra. Un fiore collettivo, «con tutti quei fiorellini messi insieme». Per conferirgli una veste affascinante e misteriosa pare che Teresa Mattei raccontò anche come la mimosa rappresentasse la donna in un’antica leggenda cinese. 

«Ancora oggi a tanti anni di distanza», ha commentato la Mattei, che lo scorso primo febbraio ha compiuto 92 anni, «mi commuovo quando vedo nel giorno della festa della donna tutte le ragazze con un mazzolino di mimosa e penso che tutto il nostro impegno non è stato vano». 

Due storie e un fiore. Ma sia Rita sia Teresita si scontreranno con il peso della figura di Palmiro Togliatti. Rita, dopo più di venti anni di matrimonio, nel 1948 si separa dal Migliore. Dietro il divorzio, la storia semiclandestina del leader comunista con Nilde Iotti, prima donna a ricoprire la carica di presidente della Camera dei deputati. Il partito reagisce malissimo. Per tanto tempo la federazione torinese impedisce alla Iotti di mettere piede a Torino, dove erano nati sia Togliatti che la Montagnana. Lei era quella che le aveva rubato l’uomo, distolto il grande leader dai suoi compiti naturali. Per giunta, Rita vive un doppio un dolore: la rottura del matrimonio per il figlio Aldo è causa di forte frustrazione e di una depressione dalla quale non si sarebbe più ripreso, trascorrendo gli ultimi anni della sua vita ina clinica psichiatrica modenese. Dopo la rottura con Togliatti, Rita Montagnana continua a fare politica nel partito. Fino al 1958. Quando dice addio pure al Pci. 

Anche Teresa si scontrerà con la figura del Migliore. Sin dal primo congresso dell’Udi, viene notata da Togliatti per il discorso appassionato che pronuncia dal palco. Il leader del Pci non rimane indifferente al suo fascino. Lei è lusingata dalla sua corte, ma non accetterà mai una relazione con lui per rispetto nei confronti di Rita. Ma già a 25 anni, quando era ancora per tutti «la ragazzina di Montecitorio», Teresa comincia a mettere in discussione Togliatti e la sua linea politica. Mentre Rita portava avanti la linea del marito, Teresa la criticava. Lei che si era sempre rifiutata di partecipare alle scuole di Partito, coordinate da Rita Montagnana. Lei che non sopportava l’obbedienza obbligatoria alle linee comuni. Nel caso del voto all’articolo 7 della Costituzione sul concordato con la Chiesa, Teresa viene obbligata a votare col voto palese. Si crea una forte tensione tra i due. Dopo questo evento, per Togliatti diventa Teresa «l’anarchica».

E per giunta aspetta un figlio, frutto del legame con Bruno Sanguinetti. Ma l’onorevole Mattei, 25enne, non sposata e anche incinta, per quegli anni, e per il partito, è una donna scandalosa. La prima ragazza madre in Parlamento. Non solo, aveva criticato apertamente Stalin. E nel 1955, anche lei, come Rita, abbandona quel Pci che non le appartiene più. 

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