La sberla del Fmi: “Le fondazioni vanno riformate”

I rilievi dell’istituzione di Washington

Una sberla alle fondazioni, enti a metà tra politica, territorio e finanza e azionisti rilevanti dei principali istituti di credito italiani. A tirarla è il Fondo monetario internazionale, a conclusione del Financial Sector Assessment Program (Fsap), la sua ispezione sullo stato di salute delle banche e dell’economia italiana cominciato a inizio 2013 e accolto con un certo nervosismo dai top manager di Piazza Affari. «Le fondazioni hanno giocato un ruolo importante come azionisti stabili e di lungo termine, ma la loro presenza sistemica e la loro caratteristica struttura di governance meritano una supervisione più stretta. Ciò può essere parzialmente ottenuto attraverso una maggiore regolamentazione bancaria in alcune aree. L’attuale quadro regolatorio dovrebbe tuttavia essere riformato in un’ottica di maggiore trasparenza, una migliore corporate govenrance e una solida gestione finanziaria, e incoraggiare una maggiore diversificazione». Al netto delle gentilezze diplomatiche, è una sonora bocciatura.

Il giudizio negativo, come si evince da queste poche righe, non risparmia il ministero dell’Economia, a cui spetta la vigilanza sulle 88 fondazioni italiane. Un cane da guardia che non abbaia né tantomeno morde, per un semplice motivo: le fondazioni sono azioniste di minoranza nella Cassa depositi e prestiti – una banca a tutti gli effetti, che investe il risparmio postale degli italiani – a sua volta controllata dal dicastero di via XX Settembre. Un “groviglio armonioso” poco trasparente, che gli uomini di Christine Lagarde hanno chiesto senza mezzi termini di riformare. Tanti, anche non considerando le vicende del Monte dei Paschi di Siena, sono i casi di mala gestio: dagli appalti agli amici della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo – a cui gli uomini di Grilli hanno soltanto chiesto lumi senza far scattare alcuna ispezione – alla Fondazione Banco di Sardegna, azionista assieme a Bper di un istituto che nel giro di un anno è passato da 30 milioni di utili a 20 di perdite. O ancora la Fondazione Cassa di Risparmio di Udine, i cui amministratori si sono aumentati il compenso a fronte di erogazioni in calo costante. Episodi laterali rispetto alle grandi cronache finanziarie, ma non meno emblematici. 

Che le regole che governano gli enti creati dalle riforme Amato-Ciampi di inizio anni ’90 vadano cambiate non è una novità, ma un’urgenza. Colpa dell’eurocrisi e dei titoli di Stato nel portafoglio delle banche, alcune delle quali –  Intesa Sanpaolo e Unicredit – figurano nel novero dei 17 istituti specializzati nell’accompagnare e sostenere le emissioni del Tesoro. E dunque non solo Comuni, Provincie e Regioni si sono dovuti accontentare degli utili accantonati negli anni passati (o al proprio patrimonio) per finanziare il territorio, ma le stesse Fondazioni sono state costrette (di malavoglia) a diluirsi nel capitale delle banche e nell’influenza all’interno del loro consiglio d’amministrazione. Piazza Cordusio docet. 

Alla luce delle medesime logiche – per dirla alla Zingales – pro business e non pro market, si può leggere invece il nervosismo con cui l’Abi, l’associazione bancaria italiana, ha accompagnato l’arrivo degli uomini del Fmi. «La copertura dei crediti dubbi attraverso gli accantonamenti è scesa, nonostante i paragoni internazionali possono essere fuorvianti poiché le regole di classificazione dei prestiti sono più stringenti in Italia che altrove», riconosce la nota dell’istituzione internazionale, che tuttavia avverte: «le prospettive economiche a breve termine continueranno a pesare sulla profittabilità, ma il programma di ispezioni mirate da parte della Banca d’Italia si propone di invertire il trend discendente degli accantonamenti». Se «le banche con un elevato ammontare di titoli di Stato continueranno a essere esposte a perdite e a una crescita del costo di finanziamento» nel momento in cui i tassi dovessero risalire, la situazione è al contrario una manna per le compagnie assicurative. In questo quadro, difficile capire chi – ad esempio tra Unipol azionista di Mediobanca, di cui è azionista la fondazione Carisbo, che è a sua volta azionista di Intesa Sanpaolo e della Cassa depositi e prestiti, ci guadagni davvero. 

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