Il “Corriere della Sera” scompare dalle edicole per due giorni, in seguito allo sciopero dei giornalisti di fronte al piano “lacrime e sangue” presentato dall’azienda: licenziamento di 110 redattori su 356, cancellazione di tutti gli integrativi ( che ormai costituivano almeno il 40 per cento degli emolumenti) la vendita del palazzo storico di Via Solferino e diversi altri tagli nell’insieme del gruppo.
Che l’editoria non stesse bene era ampiamente risaputo e forse i “corrieristi” si sono a lungo cullati nell’illusione di venire risparmiati (solo per il fatto di stare al “Corriere”) da una crisi di sistema che da almeno un quindicennio impone con la forza dei conti e della modernità l’obbligo di mutare radicalmente la “filosofia”, i modi e gli strumenti dell’informazione. Epperò c’è anche qualcos’altro: nelle scorse settimane attraverso documenti resi pubblici il comitato di redazione del Corriere ha portato all’attenzione generale affari non commendevoli e gestioni scriteriate del recente passato che sono alla base della caduta economica del corpaccione Rcs.
Ebbene su queste rivelazioni si è steso un assordante “cordone santario del silenzio”: disinteresse esplicito di tutto il vastissimo arcipelago dell’informazione e una sordità ostinata delle forze politiche e intellettuali, comprese quelle tenute per ragione sociale a intervenire. Stupisce infatti che la Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) e il sindacato regionale, che ne hanno l’unica titolarità, non abbiano sentito il pudore di salire le scale della Procura e, con un esposto almeno conoscitivo, di chiedere alla magistratura di fare chiarezza su vicende così opache e inquietanti.
Anche perché è difficile sfuggire all’impressione che nel corso degli anni il”salotto buono” che raggruppa il fior fiore degli azionisti abbia usato la Rcs più come portafoglio al quale attingere che un patrimonio culturale di Milano e del Paese da coltivare e far crescere. Al punto, per i più vecchi, da ricordare con raccapriccio gli anni disgraziati della P2, quando il “gioiello Corriere” venne svuotato di capitale e di credibilità. Certo, adesso non c’è la massoneria deviata, non esistono fini eversivi, ma il disastro economico sembra avere le stesse devastanti proporzioni (anche la P2, non a caso, voleva vendere il Palazzo storico, recidendo il Corriere dalle sue radici).
In più, (e gli stessi giornalisti ne sono amaramente consapevoli) la persistente inadeguatezza di un management spesso incapace di progettare il futuro e di attrezzare il quotidiano alle sfide difficili di un mercato e di una cultura informatica in tumultuosa trasformazione. Come se la rincorsa al gigantismo cartaceo (con continue iniziative spesso nate in pura imitazione della concorrenza e dalle gambe fragili) potesse esimere dall’impegnativa innovazione e dalla decisiva scommessa sul digitale. A giudizio di troppi osservatori non prevenuti, infatti, lo stesso sito internet del quotidiano appare troppo spesso il semplice collettore acritico di quanto non trova dignità nel più nobile prodotto di carta.
Sui tormenti del “Corriere” si assiste così ad un assordante silenzio: anche nell’illuminata borghesia meneghina che non lo sente più come un simbolo e un patrimonio collettivo della città, una borghesia distratta dallo sfarinamento di una promessa di cambiamento, comprese le liti mediocri tra il sindaco e l’ormai ex assessore Stefano Boeri.
L’incertezza politica, la durissima crisi economica consigliano evidentemente di trattenere il fiato e di tacere: e non c’è traccia dello stesso Direttore, altrimenti così presente e universalmente stimato. La voce più maliziosa e ricorrente sostiene che per Ferruccio de Bortoli c’è già una via d’uscita: quella cioè di entrare a far parte in un ruolo di prestigio della compagine “beautiful” del futuro imminente governo, sempre che quel rompiscatole di Grillo non rompa le uova nel paniere…