Essendo uno dei pochi politici di lungo corso ad avere il senso di una sensibilità internazionale (così necessaria in un Paese di fatto “commissariato” vuoi dai mercati vuoi dalle grandi istituzioni europee e non solo), il Presidente della Repubblica ha scelto di divincolarsi una volta di più dal provincialismo di Palazzo (e del suo circo mediatico) per costruire le condizioni, barocche fin che si vuole) per traghettare un sistema politico ormai in stallo irresolubile allo snodo decisivo, ovvero l’elezione del suo successore al Colle più alto.
D’altra parte era più che evidente che l’altra ipotesi accreditata nel pissi-pissi di Palazzo, ovvero le sue dimissioni anticipate, avrebbero non solo trasmesso un senso di sua resa, un gettare la spugna davanti a difficoltà insormontabili, ma soprattutto avrebbero trasmesso al mondo la sensazione di un Paese nel completo marasma e nel completo fallimento senza remissione dell’intera sua classe dirigente.
Ecco che allora la costruzione di un’agenda di governo affidata a due gruppi di autorevoli personalità di diverso orientamento è un brillante espediente per portare temporalmente la crisi alla sua svolta fisiologica, ovvero la pienezza di un Capo dello Stato, che senza la mutilazione del “semestre bianco” riacquisisce il potere fondamentale di scioglimento delle Camere in un quadro parlamentare dall’incerta e confusa capacità di operare, a cominciare dall’atto primigenio della fiducia aun nuovo governo.
L’accentuazione peraltro ripetuta sulla piena possibilità di operare dell’esecutivo in carica (mai sfiduciato, seppur dimissionario) e l’accenno sulla Commissione speciale Giorgetti sull’economia sono un segnale inequivocabile trasmesso all’estero (che pure conta e conta tanto) che l’Italia non sta precipitando nel caos e ci si può continuare a fidare di lei.
A un osservatore disincantato può apparire chiaramente una “augusta melina”, un modo ineccepibile di guadagnar tempo per arrivare al passaggio politicamente più significativo senza rinunciare anzitempo al ruolo e alle prerogative del Presidente. Segno allora che “King George” (l’anomalo comunista più amato a Washington anche ai tempi della guerra fredda) riacchiappa per i capelli una crisi che il gioco dei partiti e della loro testardaggine aveva trascinato fino a un punto di non ritorno.
Napolitano conserva il realismo politico di “partire dai numeri”, cosa che troppi giovani leoni ammalati di alterigia continuavano a far finta di dimenticare: e dimostra di non volersi mai arrendere, esercitando il suo pesante dovere fino all’ultimo minuto. E fa quasi impressione squadernare i titoli dei giornaloni più paludati, tutti impostati in maniera monocorde sull’ipotesi “dimissioni”. Come è avvenuto per la vicenda emblematica del Papa, l’informazione di Palazzo più autoreferenziale e che va per la maggiore ha fatto un altro “buco nell’acqua”…