Troppa austerity fa male, ma attenti ad esagerare nel senso opposto, e puntare tutto sulla leva della spesa pubblica per far ripartire la crescita. Soprattutto se si ha, come l’Italia, un debito pubblico molto elevato. Parola di Bce, che qualche giorno fa ha pubblicato un serio (quanto quasi ignorato) studio intitolato Fiscal stimulus in times of high debt («Lo stimolo fiscale in tempi di alti deficit»). Uno studio realizzato da due economisti tedeschi, Christiane Nickel, responsabile dell’analisi politico-finanziaria della Divisione politiche fiscali della Banca centrale europea, e Andreas Tudyka, ricercatore presso la Otto Beisheim School of Management. Sembra quasi fatto per i politici italiani che invocano con troppa facilità il ritorno a massicci investimenti pubblici per far ripartire l’economia, nel più classico dei modelli keynesiani.
Il documento Bce sottolinea che «sebbene l’alto debito pubblico non sia un’anormalità storica, il grado in cui ne sono state colpite le maggiori economie è eccezionale». Lo studio analizza i dati di 17 stati europei dal 1970 al 2010 per capire il rapporto tra aumento della spesa degli Stati e degli investimenti pubblici e la reazione del pil e degli investimenti privati. Come dimostra una cospicua serie di grafici allegati allo studio, a bassi livelli di debito pubblico «choc fiscali espansionistici (e cioè investimenti pubblici per stimolare l’economia, ndr) – si legge nel testo – pari all’1% del pil sono seguiti da risposte positive cumulative del pil». Attenti però: «A più elevati livelli di debito – avverte lo studio – l’effetto generale sul Pil reale vira in negativo, aumenta la fuga degli investimenti privati e la bilancia commerciale vira al positivo», un segnale del calo dei consumi (visto che si acquista di meno, e dunque si esporta più di quanto si importi).
I due economisti tedeschi cercano di capire il perché. E lo trovano anzitutto nel concetto di «internalizzazione». Traduciamo: cittadini e investitori «fanno proprie» le costrizioni dei conti pubblici di fronte a un debito elevato. Vedendo che il deficit e il debito crescono senza un corrispondente incremento della pressione fiscale, prevedono che prima o poi lo Stato dovrà tornare ad aumentare le tasse per ripagarlo, e così molto presto cominciano a frenare consumi e investimenti preparandosi alla batosta fiscale, prima ancora che questa arrivi. «Di conseguenza – avvertono Nickel e Tudyka – gli effetti degli stimoli fiscali per rilanciare l’attività economica o risolvere squilibri esterni svaniscono quanto più è elevato il debito. Perciò questi risultati dovrebbero portare a una maggiore prudenza ad alti livello di debito».
I grafici sono particolarmente eloquenti. Ad esempio con un debito pubblico al 35% del pil, perché spariscano gli effetti dello stimolo e si torni ai livelli precedenti ci vogliono in media otto anni. Se il debito è invece al 112% (e quello italiano è al 127%) ne bastano due e poi anzi l’effetto vira al negativo. Curiosamente, il discrimine tra debito sufficientemente basso perché gli stimoli siano utili e invece abbastanza alto perché questi rischino di non funzionare è intorno a un debito al 60% del pil: proprio uno dei parametri di Maastricht alla base del Patto di stabilità e crescita dell’eurozona.
La conclusione dello studio della Bce è netta: «Le nostre ricerche – si legge – suggeriscono che i governi dovrebbero attentamente valutare la situazione del debito pubblico prima di attuare stimoli fiscali, in quanto la loro efficacia nel rilanciare l’attività economica o risolvere squilibri esterni non è garantita. Considerando il recente incremento dei livelli di debito pubblico per quasi tutti i paesi industriali, lo studio implica che nuovi stimoli fiscali potrebbero essere non solo inefficaci, ma controproducenti». La morale della favola? Troppa austerity, soprattutto se a colpi di aumento delle tasse, nuoce gravemente alla crescita. La soluzione, però, se si ha un alto debito come l’Italia non è nello spendere e spandere. Bisognerà trovare altre vie. Non sarà facile.