La Lega Nord, arrivata sull’orlo del precipizio per il drastico responso delle urne, rilancia puntando sul consenso personale ottenuto dal neogovernatore Roberto Maroni (680mila voti, se si sommano le preferenze ottenute dall’ex titolare del Viminale a quelle incassate dalla sua lista civica) e sul progetto della macroregione del Nord. Il nuovo presidente della Lombardia pensa che il suo asso nella manica sia la creazione di un blocco politico, che gli permetterà di arrestare l’emorragia interna del Carroccio e riaffermare la priorità della questione settentrionale, un nodo reale dell’economia italiana, mai sciolto.
Per il momento, per quanto interessante e necessario, il dibattito assomiglia a quello sul sesso degli angeli. In teoria la macroregione può essere costituita senza forzare la Costituzione perché l’articolo 117 permette di rarificare le intese fra le Regioni “per il miglior esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni” e, nelle materie di sua competenza, “di concludere accordi con Stati e enti territoriali interni a un altro Stato”. Quindi non c’è bisogno di fare nessuna confederazione, come invece temono i detrattori della Lega, che stanno evocando lo spettro della secessione, ma si tratta solo di un patto politico per far convergere interessi, sinergie comuni e condividere i modelli di gestione virtuosi da convidere con le altre regioni settentrionali. Anche se all’orizzonte della macroregione ci potrebbe essere una tempesta, provocata dalla fragilità economica e finanziaria del Piemonte, che ha un debito regionale di quasi 12 miliardi di euro compreso un miliardo di deficit della Sanità.
Sul versante europeo invece, il progetto di Maroni è quello di fare massa critica e stringere rapporti di cooperazione transfrontaliera, come si sta cercando di fare con la costituzione della macroregione alpina, unendo le aree strategiche più produttive di Italia, Francia, Austria, Svizzera e Germania, 70 milioni di abitanti, e ottimizzare i fondi europei, grazie a un documento firmato, che si basa, per ora, solo su delle linee guida: competività, innovazione, energia, acqua, clima, mezzi di comunicazione e trasporti. Anche se è stato fatto un passo in avanti e, all’ultima riunione, i presidenti delle regioni coinvolte hanno ottenuto il nullaosta del commissario europeo alle Politiche Regionali, Johannes Hahn, che si è impegnato di aumentare i finanziamenti per la cooperazione transfrontaliera del 30% con un fondo di 13 miliardi dal 2014 al 2020, ma nulla è ancora è stato deciso sulla governance, su cui si dovrà discutere entro giugno del 2013 a Milano.
Sulla carta ci sono già molte macroregioni europee. Le più grandi, già operative, sono quella Baltica, formalizzata da una direttiva europea nel 2010 e quella transdanubiana istituita nel 2012, che di fatto rappresentano un accordo di una cooperazione transnazionale e permettono alle regioni che ne fanno parte di avere progetti comuni. L’Erb, l’euroregione Baltica per esempio, è nata per favorire la cooperazione tra i suoi membri e sostenere uno sviluppo sostenibile comune nell’area. Come migliorare le condizioni di vita degli abitanti dell’area, promuovere gli scambi ed i contatti, rafforzare i legami tra le comunità locali; eliminare ogni traccia di pregiudizi di tipo storico o culturale, sostenere attività legate alla salvaguardia ambientale ed allo sviluppo sostenibile dell’area, promuovere la cooperazione tra autorità locali e regionali. Nobili intenti, per carità, che però sembrano un po’ diversi dalle tre macroregioni italiche vagheggiate dall’ideologo della Lega, Giangranco Miglio, e o dall’Europa dei popoli invocata da Umberto Bossi.
I sostenitori del Grande Nord ritengono che le tre regioni, quattro se si considera anche la regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, che ha aderito al progetto di Roberto Maroni, pur avendo una normativa diversa, a statuto speciale, possono mettersi d’accordo per fare un consiglio regionale con lo stesso ordine del giorno per approvare identiche delibere, e decidere di accorpare istituti di ricerca, organismi ed enti pubblici per ridurre la burocrazia, abbattere i costi, e unificare gli sforzi. O costituire un unico gruppo eurparlamentare a Bruxelles. Un po’ poco per convincere i macroscettici. Secondo Mercedes Bresso, vicepresidente del Comitato delle regioni dell’Unione europea, la macroregione è solo un tentativo mascherato di una secessione delle regioni settentrionali, ma forse il suo giudizio è condizionato dal conflitto mai sopito con il governatore Roberto Cota, che lei considera un usurpatore, dopo che le ha soffiato la riconferma alla presidenza del Piemonte per una manciata di voti.
Mercedes Bresso è stata però una sostenitrice della fusione di Piemonte e Liguria, che hanno caratteristiche territoriali e interessi comuni, ma poi il progetto si è fermato. “Le macroregioni europee sono documenti programmatici, utili alla cooperazione per creare ospedali o università trasnazionali per esempio. Come è successo nel caso dell’Accademia di Grenoble”, spiega, “ ma i loro accordi sono gestiti grazie a fondi propri delle regioni o europei, senza ulteriori finanziamenti, e soprattutto non puntano alla secessione, che per me è il vero punto di approdo di Maroni”. Se la parola secessione è anacronistica, sicuramente la macroregione del Nord ha un limite: la vaghezza. E rischia di rimanere sulla carta, soprattutto in momento di profonda instabilità politica e di acuta recessione economica. Sì, perché l’obiettivo di trattenere il 75% delle tasse, per ora è considerato irrealizzabile a meno di fare una legge ad hoc.
Come osserva Stefano Bruno Galli, ricercatore all’università statale di Milano, politologo e accanito teorico della questione settentrionale, «bisogna distinguere fra il gettito fiscale complessivo che si vorrebbe trattenere al Nord dal residuo fiscale che si basa su un’iniqua ridistribuzione fra versamenti e restituzioni dallo stato centrale. Grazie a un blocco politico comune delle regioni settentrionali può essere riequlibrato. Perciò la macroregione servirebbe soprattutto a far pesare maggiormente la propria forza, a Roma, per aumentare la capacità di negoziazione con il governo centrale». Sempre che si trovino i margini per ottenere più risorse da uno stato in affanno, che non sa come contenere e ridurre la spesa pubblica.
«Aumentare la percentuale delle tasse restituite dallo Stato alle regioni, fino al 75% costituirebbe già un progresso notevole», chiosa Galli, neoletto consigliere regionale e autore di un recente saggio, che si intitola appunto il Grande Nord (Guerini e associati) . Per i macroscettici però, anche questa meta è difficile da raggiungere perché, conti alla mano di Unioncamere del Veneto, che ha un osservatorio sul federalismo fiscale, nel biennio 2008-2010, la Lombardia ha versato 169 miliardi di euro allo stato, che ne ha restituiti 67%, il Veneto ne ha ricevuti il 70%, mentre il Piemonte addirittura l’80 per cento. Percio è difficile immaginare che possa diminuire il residuo fiscale, a meno di ottenere ulteriori competenze, assumendosi però nuovi costi e una fetta di debito della spesa pubblica.
Morale, per capire se la macroregione, che ha sostituito il sogno della Padania, può realizzarsi, bisogna aspettare il documento specifico annunciato da Maroni, alla scadenza dei suoi primi cento giorni di governo, e forse allora si saprò se è possibile andare oltre il pensiero astratto. Tenendo in considerazione, però, che il Pil del 2011 di Veneto (133 miliardi e 607 milioni di euro) , Piemonte (114 miliard e 453 milionidi euro) e Lombardia (302 miliardi e 184 milioni di euro), Fvg (32 miliardi e 983 milioni di euro) costituiscono il 40,9% del Pil italiano. E che con il 54% delle loro esportazioni rappresentano il motore trainante dell’economia italiana. In ogni caso, se il modello a cui si aspira è sulla falsariga delle macroregioni europee, esiste un limite, che non può essere ignorato. E cioè la regola dei tre no, imposta dall’Unione Europea: no a nuovi finanziamenti, no a un nuovo strumento istituzionale, no a una nuova regolamentazione. Anche se questo vincolo è stato mitigato dal Consiglio europeo, che ha promosso una «regola dei tre sì»: sì alla complementarietà dei finanziamenti, sì al coordinamento degli strumenti istituzionali, sì alla definizione di nuovi progetti. Tre no, tre si che danno, per ora, un risultato modesto.