Dopo le elezioni, Berlusconi è tornato ad affrontare i suoi processi. Ma la maratona giudiziaria comincia male, con una condanna a un anno di reclusione, anche se in primo grado e senza interdizioni. Motivo? Concorso in rivelazione di segreto di ufficio, insieme al fratello Paolo. Si tratta sempre dell’ormai celebre caso dell’intercettazione Fassino-Consorte, pubblicata dal Giornale il 31 dicembre 2005. Per chi non ricordasse, erano i tempi in cui Unipol tentava la scalata della Banca Nazionale del Lavoro. E Fassino, che era segretario dei Ds, per informarsi dell’esito della cosa, chiedeva a Consorte le novità. «Ma abbiamo una banca?». Frase rimasta celebre, perché ne scaturirono polemiche e accuse infinite alla sinistra, vista come manovratore occulto in un disegno complesso di operazioni finanziarie a suo vantaggio.
Ma perché, tra tutte le intercettazioni uscite sui giornali, proprio questa è stata oggetto di indagine (che è risultata in una condanna)? Perché il nastro non è arrivato a Berlusconi (o a chiunque del Giornale) attraverso fughe di notizie dalla procura. E questo lo si capisce per la semplice ragione che, in quel momento, doveva ancora essere depositato agli atti. L’intercettazione è stata portata a Berlusconi proprio da chi l’aveva fatta, cioè i titolari della Rcs (Research Control System), azienda di spionaggio di cui si serviva la Procura per questo genere di compiti.
E tutto comincia proprio quando il titolare della Rcs Roberto Raffaelli informa gli altri due imprenditori Eugenio Petessi e Fabrizio Favata del contenuto delle intercettazioni. L’idea di un fare un regalo al Presidente è quasi immediata. Tutto semplice: Favata era in affari con Paolo Berlusconi, ne hanno parlato e la cosa è piaciuta. Il nastro arriva su una pen drive e viene ascoltato durante un incontro ad Arcore, la vigilia di Natale. Alla presenza dello stesso Silvio Berlusconi, che, nonostante alcuni momenti di sonno improvviso, si intravede il vantaggio di questa scoperta, aveva promesso ai due imprenditori perfino “gratitudine eterna”.
Ma si sa, le promesse durano poco. E Favata si ritrovò presto in cattive acque. La società fallì e chiese aiuto a Berlusconi, proprio in nome di quell’antico favore. Ma trovò solo porte chiuse. E allora decise di raccontare tutto, anche a costo di essere condannato.
Per i Berlusconi le cose si complicano: Favata vuota il sacco, la vicenda scoppia e partono le indagini per entrambi. Nel giugno 2011 Favata, Petessi e Raffaelli scelgono di patteggiare. Il gup di Milano Stefania Donadeo ordina di risarcire anche Fassino, con 40mila euro. Nel settembre dello stesso anno, nonostante la richiesta di archiviazione per il Presidente del Consiglio, si decide di rinviare a giudizio anche lui. E gli va male. «Credo che sia la prima volta che si condanna per la violazione del segreto istruttorio», dice l’avvocato Piero Longo, difensore di Silvio Berlusconi. «Non sono sorpreso, perché siamo a Milano e perché l’imputato è Silvio Berlusconi». La condanna c’è altre decisioni arriveranno, ma la storia dei processi (e la retorica delle persecuzioni) continuerà.