Perseguitati e uccisi, la tragedia dei copti in Libia

Vittime degli integralismi

L’instabilità e la mancanza di sicurezza in Libia non rischia solo di penalizzare il suo processo democratico e di colpire la sua autonomia, ma è anche motivo di forte preoccupazione per la minoranza copta del paese, vittima da un mese a questa parte degli attacchi degli estremisti islamici salafiti e dell’indifferenza delle forze di sicurezza del governo.

A Tripoli avevano altri grattacapi: i deputati hanno sospeso le sedute del Parlamento a causa dell’attacco dei miliziani dei Fratelli Musulmani (volevano imporre una legge per l’allontanamento dei gerarchi del passato regime dalla vita politica) e nel frattempo divampavano gli scontri tra milizie rivali nei pressi dello stabilimento Eni a Mellitah, che hanno costretto la sospensione dell’export del gas verso l’Italia. In pochi si preoccupavano degli attacchi che subivano i cristiani copti in quel paese.

A subire le persecuzioni maggiori sono stati i copti di Bengasi: finiti nell’ultimo mese nel mirino dei gruppi salafiti. Il primo allarme è stato lanciato il primo marzo, attraverso l’uso dei social network in lingua araba, dopo che un centinaio di egiziani di fede copta era stato sequestrato in Libia e sottoposto a torture da parte di una brigata salafita di Bengasi. Le denunce sono arrivate da alcuni esponenti della comunità, che hanno postato su Facebook delle foto che ritraevano i presunti ostaggi. Gli attivisti hanno anche annunciato che le foto erano state inviate alle Nazioni Unite, all’ambasciata egiziana a Tripoli, al ministero egiziano degli Esteri, all’Osservatorio libico per i diritti umani e a Human Right Watch. Secondo fonti copte in Libia, i salafiti avevano attaccato una chiesa, preso gli ostaggi, e sottoposti a torture. Tutti sono stati rasati; le croci che alcuni di loro portavano tatuate sul corpo sono state cancellate con l’acido.

«La Chiesa copta del Cairo ha inviato una richiesta ufficiale di intervento al ministero egiziano degli Esteri – ha detto la fonte, a condizione di anonimato – che ha avviato i negoziati con la controparte libica per risolvere la questione e ottenere il rilascio dei cristiani catturati». L’episodio è stato successivamente confermato dalle autorità libiche, che hanno però fornito numeri diversi. Secondo Tripoli, i copti arrestati a Bengasi con l’accusa di proselitismo erano cinquanta, e non cento. E le accuse erano giustificate: gli arrestati avevano con se grandi quantità di bibbie, immagini di Gesù e del papa cattolico Benedetto XVI.

I 50 sono stati anche accusati di ingresso illegale nel Paese, per cui dopo una breve detenzione sono stati espulsi. Anche se le autorità libiche non lo hanno detto, è chiaro che questa vicenda indica anche una certa complicità tra i gruppi salafiti e le forze di sicurezza nella repressione dei copti, considerato che gli attivisti cristiani erano stati fermati dai salafiti e poi consegnati alla polizia. Solo un mese prima, sempre a Bengasi, 4 cristiani stranieri erano stati arrestati per aver distribuito copie di bibbie e vangeli. «È un fatto molto grave – ha commentato dall’Etiopia padre Pachomios, arcivescovo di Beheira, Matrouh e della Libia – cittadini egiziani sono stati arrestati sulla base di un semplice sospetto di proselitismo e sono stati torturati. Ma non è credibile che un centinaio di copti abbiano deciso tutto a un tratto di avviare attività di proselitismo in un altro paese». Anche Naguib Gabriel, che guida l’Unione egiziana per i diritti umani, ha confermato la vicenda e ha accusato il governo egiziano di non fare abbastanza. «Se lo stato egiziano continuerà a essere inattivo e non adempirà al suo dovere di garantire il rilascio dei copti catturati in Libia – ha detto – mi rivolgerò al Consiglio per i diritti umani dell’Onu affinché intervenga».

Col passare dei giorni, la vicenda si è avviata verso una soluzione. Secondo il consolato egiziano a Bengasi, 20 attivisti copti egiziani sono stati liberati quasi subito, mentre altri 23 sono stati rilasciati successivamente. Fonti della sicurezza libica avevano già annunciato subito dopo il loro fermo che i circa 50 copti egiziani sarebbero presto stati rilasciati e rimpatriati e avevano precisato che il loro arresto non aveva motivazioni religiose, ma era legato al loro ingresso illegale in Libia.

La soluzione del caso sarebbe arrivata dopo sei colloqui tra i ministeri degli Esteri dei due paesi. Resta tuttavia una discordanza sui numeri, visto che gli attivisti copti che hanno denunciato il caso hanno parlato di almeno un centinaio di egiziani arrestati e “torturati” per proselitismo. Chi ha ragione? Il problema è che in quei giorni avveniva contemporaneamente un altro fatto gravissimo. Un gruppo di uomini armati ha attaccato una chiesa a Bengasi aggredendo due preti della comunità copta egiziana.

La notizia è stata confermata dal ministero degli Esteri libico che ha condannato con fermezza l’episodio, “contrario alle leggi”, dell’Islam e al diritto internazionale. L’esecutivo di Tripoli ha anche reso noto di aver «adottato le necessarie misure per la sicurezza della chiesa e dei suoi occupanti». Cosa che però sembra non aver fatto, considerato che a distanza di due settimane la stessa chiesa copta, che ospitava i due sacerdoti aggrediti, è stata data alle fiamme. Un gruppo di uomini armati, si ritiene estremisti islamici salafiti, sono penetrati all’interno della chiesa copta di Bengasi il 14 marzo e le hanno dato fuoco. Lo ha riferito un testimone della città dell’est della Libia. «Diversi uomini armati sono arrivati sparando in aria, hanno appiccato fuoco alla chiesa e sono ripartiti», ha detto il testimone.

Dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi, nel 2011, la minoranza cristiana in Libia esprime spesso timori di essere minacciata dai movimenti islamici estremisti in particolare nell’est del Paese. Attacchi iniziati nel dicembre del 2012 quando due copti egiziani sono morti nell’esplosione di una chiesa nella città costiera di Dafniya. Eppure come si evince da questa vicenda, la collusione tra i gruppi armati islamici e le forze di sicurezza, che dovrebbero proteggere i cristiani in Libia, sembra costringere i copti alla fuga non avendo alcuna garanzia per la loro incolumità.

Anche nell’episodio dei 50 egiziani copti arrestati, le autorità di Bengasi hanno avallata di fatto un abuso dei gruppi islamici. Secondo fonti cristiane della zona, le persone arrestate non erano altro che venditori ambulanti copti accusati di esporre sulle loro bancarelle icone e altro materiale religioso. La notizia del loro arresto è uscita al di fuori dei confini della Libia grazie a un video diffuso su internet dagli attivisti libici, poi sequestrato dalla polizia. Rientrati in Egitto nei giorni scorsi i copti hanno denunciato di essere stati picchiati e torturati dagli estremisti islamici. Sempre in quei giorni a Tripoli avveniva un altro fatto di estrema gravità. Durante la domenica, nella cattedrale di Tripoli, un uomo armato di kalashnikov ha sparato due colpi contro Padre Magdi Helmi, un sacerdote francescano, mancandolo. Il Vicario in Libia, monsignor Giovanni
Martinelli, si è detto molto preoccupato per questo episodio ed ha chiesto, anche in questo caso, la protezione delle autorità locali.

A portare la stampa araba a puntare il dito sulle persecuzioni subite dai cristiani in Libia non è stato questo attacco, bensì la morte di un copto egiziano, Ezzat Hakim Attalah, arrestato il 28 febbraio e morto dopo 10 giorni in un carcere di Bengasi. L’uomo, padre di due figli, era stato arrestato insieme ad altri cinque connazionali cristiani evangelici con l’accusa proselitismo. La sua salma è arrivata solo il 14 marzo all’aeroporto del Cairo ed è stata portata nella sua provincia di origine, Asiut, dove si sono svolti i funerali a cui hanno partecipato migliaia di persone.

La vicenda di Attalah ha provocato un forte sdegno tra i copti egiziani che hanno organizzato diverse manifestazioni di protesta e sit-in davanti all’ambasciata libica al Cairo, per chiedere protezione ai cristiani copti presenti nel paese arabo. Secondo fonti del ministero degli Esteri egiziano, l’uomo morto in carcere a Bengasi era diabetico, soffriva di cuore ed è deceduto per cause naturali. Diversa però è la versione della moglie, Raga’ Abdullah Guirguis: lei sostiene che il marito sia deceduto per le pressioni e le torture materiali inflitte dai carcerieri libici e ha annunciato che farà ricorso ad avvocati internazionali per stabilire la reale dinamica della
morte.

È solo dopo questo caso che si sono finalmente accesi i riflettori nel mondo arabo sulla drammatica situazione dei cristiani in Libia, divenuti bersaglio delle milizie salafite e dell’indifferenza delle autorità che controllano la regione della Cirenaica. Secondo Naguib Gibrail, attivista copto presidente dell’Unione egiziana per i diritti dell’uomo, Atallah, insieme ad altri quattro copti, era stato sottoposto a tortura senza comparire davanti al procuratore. Gibrail ha puntato il dito anche contro il presidente egiziano, Mohamed Morsi, e il governo dei Fratelli Musulmani che «non hanno sollevato la questione durante il colloquio col primo ministro libico Ali Zidane, malgrado la segnalazione delle famiglie alla presidenza».

Lo sdegno è tale che da una settimana va avanti il sit-in dei copti egiziani davanti alla sede dell’ambasciata libica e non sono mancati momenti di violenza, quando i manifestanti hanno lanciato sassi contro gli uffici diplomatici libici. Per questo l’ambasciata libica al Cairo ha sospeso le sue attività a tempo indeterminato, temendo per l’incolumità dei suoi impiegati. I manifestanti in questi giorni hanno impedito agli addetti dell’ambasciata di entrare o uscire dai loro uffici. Sono ferme quindi tutte le attività diplomatiche e consolari anche per i cittadini libici in Egitto, in attesa che Tripoli garantisca nei fatti e non nelle parole la sicurezza ai cristiani che vivono in Libia. 

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