L’anno è passato, è passato anche Sanremo. È stato aperto da Marco Alemanno con un ricordo del suo compagno Lucio Dalla. Ed è stato vinto da Marco Mengoni, che con Dalla aveva duettato nella riedizione di “Meri Luis”, un classico minore del 1980. Oggi è il 4 marzo 2013, dal 1943 sono passati settant’anni, e stasera Piazza Maggiore a Bologna sarà piena per celebrare un compleanno mancato (e diventato famoso proprio a Sanremo, nel 1971).
Il mio ricordo di Lucio Dalla non parte né dal Festival né da Bologna. Parte dal un garage di una casa di Fondi, un paese all’inizio del Sud, dove è appeso un manifesto pubblicitario. Sta lì dalla metà degli anni Ottanta, mezzo coperto da vari attrezzi e scorie, la solita roba che si accumula nei garage. Il manifesto è una pubblicità di una ditta di latticini. Fotografato in panama e occhialini – la sua divisa tipica di quegli anni – Lucio Dalla guarda sorridente dal muro. Se compri un tot di prodotti, dice la pubblicità, puoi vincere le sue cassette. O almeno credo che dica così: non ci ho mai fatto tanto caso, a dire il vero. Una sua cassetta l’avevamo già, e ci bastava.
È per via di quella cassetta, The best of Lucio Dalla, che il manifesto è appeso in garage (e che io sto scrivendo queste righe). L’ha preso mio padre nell’alimentari dietro il castello. Siamo entrati nell’alimentari, io e mio padre, abbiamo riconosciuto quella faccia familiare e simpatica in vetrina, mio padre ha chiesto di staccarsi il poster e l’ha fatto. Io non ricordo d’aver chiesto niente. Avrò avuto al massimo cinque anni. Non ho mai chiesto niente in vita mia, ho sempre sentito una vergogna immensa nel fare richieste. Di sicuro avevo notato la faccia di Dalla, ma senza pensare di portarmela a casa! Insomma, è stato mio padre. Ha chiesto al bottegaio, ha staccato il manifesto, l’ha attaccato in garage, punto. Siamo usciti dall’alimentari contenti per questa scemenza che, in quel momento, riguardava solo noi due.
Lucio Dalla è la presenza di cui ho il ricordo più antico, a parte i parenti prossimi. Lucio Dalla c’è sempre stato. C’era la mia famiglia, e la cassetta The best of Lucio Dalla in macchina. Praticamente uno di famiglia pure lui, occhialini, basco, barba, strani versi, clarinetto, piano, tutto compreso. Era famosissimo, ma io non lo sapevo. Per me era come se lo conoscessimo solo noi, e dopo, un pochino, tutti gli altri (Dalla si vedeva poco in tv e non andava a Sanremo). Non potevo rendermi conto. Avevo capito soltanto che c’era sempre qualcuno che andava di moda, tanti altri cantanti famosi e amati dai ragazzini. La radio trasmetteva altro, ma io della radio non sapevo nulla. Mai ascoltata. Inoltre il pop e il rock erano, nella visione paterna, né più né meno che lo sterco del demonio.
La musica, per me, era soltanto quella cassetta rosata. Per lunghi, lunghissimi anni io e i miei non ci siamo preoccupati di sentire altro. Neanche nei lunghi viaggi autostradali per andare sulla neve. La mettevamo per tornare al paese, dai nonni, ogni fine settimana. Sessanta chilometri di Via Appia, andata e ritorno, da “Futura” a “Mambo”. In mezzo, quasi tutti i classici. Con al primo posto “L’anno che verrà”, un vero inno per la mia famiglia. Era la canzone preferita di tutti. Pensavo che fosse solo una questione musicale – l’emozione, forte ancora oggi, di quell’inconfondibile attacco di piano – ma probabilmente mi sbagliavo.
Non sapevo, allora, che “l’anno che sta arrivando” era la stessa vita dei miei genitori: la promessa di un futuro da costruire, lasciandosi alle spalle gli anni Settanta, con tutta la loro paura di piombo. Dalla aveva scritto la canzone pensando a un’Italia incattivita, concludendo però che la scelta giusta era guardare avanti senza paura: «anche se l’anno prossimo sarà brutto, io ci voglio essere. È questa la novità», spiegava nelle interviste. Quello che toccava fare alla maggioranza degli italiani, di solito attraverso un matrimonio e un lavoro.
Ma se vogliamo ridurre il godimento di Dalla alle sole sette note, alle sola ingegnosa combinazione delle parole, beh, va benissimo lo stesso. Mi sento fortunato, a ripensarci. Potevo essere traviato per sempre da qualche bruttura commerciale, e commuovermi ancora oggi per della robaccia (tanto, prima o poi, si recupera tutto, Veltroni docet). Invece no. Il mio affetto per Dalla è ormai irrazionale, ma alla base c’è della bellezza vera. Io e i miei ci eravamo attaccati a qualcosa di davvero bello. Le canzoni di Dalla sono uniche, non assomigliano a quelle di nessun altro. E sono, forse, la vera quadratura del cerchio della musica leggera italiana. Nessun altro è stato così colto e popolare allo stesso tempo.
Sì può tentare di riprodurre una formula del genere a tavolino, come ha fatto Fabio Fazio nell’ultimo Sanremo. Ma il risultato non è garantito, e infatti ne è uscito un festival noioso. Un altro genovese, Fabrizio De André, riconosceva che Dalla era l’unico ad aver saputo combinare la scrittura cantautorale con la potenza di suono di una rock band. Faceva musica che sapeva e doveva arrivare a tutti, ma senza banalità. Attingeva dal jazz per giungere al pop senza alcuno sforzo. Ci riusciva per talento, per istinto, per la fortuna di avere ottimi collaboratori come il produttore Alessandro Colombini.
Tutto ciò non stupisce, se pensate per un attimo a quanto era unico lui. In fondo, ci faceva simpatia anche la sua figura fuori dagli schemi: un ometto buffo, peloso, piccolo, strano, ironico, che quando cantava ogni tanto faceva strani rumori – lo scat singing – e si divertiva a rifare l’eco alle strofe che aveva appena pronunciato. Non siamo stati i soli a pensarla così. Basta ricordare Fellini, di cui Dalla era amico, come testimonia una bellissima chiacchierata in radio. In Ginger & Fred, anno 1985, c’è una scena con dei sosia di Lucio Dalla, chiaramente è un omaggio: in quel periodo, al regista piaceva anche andare ai concerti del suo conterraneo. Dalla, nel panorama della musica italiana, rappresentò un’alterità fin dall’inizio, da “Paff, Bum!” in poi. Ma gli ci sarebbe voluto oltre un decennio per trovare il coraggio di scrivere i propri testi e arrivare all’equilibrio perfetto di classici come “Anna e Marco”, “Cara”, “Quale allegria”, “Tango”, “Il cucciolo Alfredo”, e molte altre.
Su tutte domina “Com’è profondo il mare”, ritratto di tempi disordinati ritornato con prepotenza d’attualità, oggi che i cattivi pensieri hanno la maggioranza assoluta in Parlamento e in molti, mentendo, vorrebbero raccontarci di un mare meno profondo. Ognuna di queste canzoni, pur attraverso immagini retoriche (le preferite: le stelle, la luna, i cani, il mare…), parla della vita reale, non priva di difficoltà e addirittura di disperazione, senza vezzi di buon gusto (abbondano escrementi e sporcizia, per non dire della masturbazione in “Disperato erotico stomp”) ma con una forza che, alla fine, fa stare bene: “quelle note, quella voce sprigionano un’energia positiva davvero contagiosa. E questo, nonostante il mondo che lui racconta sia sempre sull’orlo della catastrofe”, annota Leonardo Colombati (in Canzone Italiana, 1861-2011). Dovrebbe essere un ossimoro, eppure funziona proprio così.
E Dalla ne era consapevole. Lo scoprii sentendolo parlare a a Roma, all’Università La Sapienza. Una presentazione del libro con i suoi testi. Non scriveva grandi canzoni da anni, ma non importava. Non ricordo quasi nulla di ciò che dissero Vincenzo Mollica e Giulio Ferroni (che non a caso scrisse un commento sul Messaggero per la morte del cantante, svelando che avevano la stessa età). E ciò che diceva Dalla non si capiva al 100%, il suo accento bolognese masticava le parole e ogni tanto le mangiava del tutto. Ricordo però chiaro il senso: la grande arte, la vera arte, è sempre popolare. Nasce dal popolo, è per il popolo.
Un concetto che, prima di lui, è stato espresso da artisti ben più celebri: Picasso, per dirne solo uno. Dalla lo illustrò con un esempio spiazzante, in puro stile dalliano: «Bjork è più vicina a Totò che a Barbra Streisand», proclamò gesticolando. Come dargli torto? Alla fine della conferenza, mi avvicinai alla cattedra con un cd in mano. L’album omonimo del 1979, quello perfetto, che si chiude proprio con “L’anno che verrà”. Volevo un autografo dal mio vecchio amico, mai visto così da vicino. Una richiesta un po’ infantile, non a caso. Mentre firmava, presi fiato e coraggio per dirglielo: «Sai Lucio, è colpa tua se ho detto la mia prima parolaccia. A tre anni avevo imparato a memoria “Disperato Erotico Stomp”, ripetevo “puttana” e i miei mi rimproveravano subito». Lui si girò divertito: «Ah! Mi hai dato una grande soddisfazione!» Disse proprio così, allungando la “a” di grande e trasformando la “z” di soddisfazione in “s”, come pretendeva il suo dialetto.
Oggi rimango col ricordo di quella soddisfazione, che da sola pareggia le soddisfazioni che lui ha dato a me. Un’epoca se n’è andata, com’è giusto che sia. Non tornerei indietro, all’infanzia, per tutto l’oro del mondo. Ma potrei racchiuderne la parte buona in un nastro, per avere una risposta ogni volta che mi fermerò a chiedermi cosa sarà che fa crescere gli alberi, la felicità.