Startup, il nome è il messaggio. Ma senza esagerare

Giochi di parole 2.0

Twitterpedia. Gapster. Phototag. Faboo. Snaplist. Avete mai provato qualcuna di queste app? Certo che no, dato che non esistono. Sono soltanto nomi ideati di sana pianta da “Web 2.0 Name Generator“, un sito (geniale) che permette di trovare un nome alla compagnia web che state costruendo. Se siete a corto di idee, il generatore casuale di nomi potrebbe fare al caso vostro. Se avete voglia di farvi quattro risate, idem.

Nel mondo “dell’internet”, come direbbe qualcuno, il nome conta tantissimo. È il biglietto da visita, la finestra che aprite sul mondo. Sono quelle poche lettere che, nella maggioranza dei casi, determinano buona parte del successo – o dell’insuccesso – di una startup. Perché Facebook e Google sono riuscite ad entrare nell’immaginario comune e Okrut, Bebo e Friendster no? Da un lato, perché funzionano meglio: dall’altro, grazie al loro nome. Il nome è il marchio, e tutti sappiamo quanto il “brand” sia importante, in modo particolare nell’era della viralità e dei social media.

Qualcuno dovrebbe spiegarlo a Microsoft. Pochi giorni fa, la multinazionale di Redmond ha cominciato a distribuire un’app dal nome ambiguo, almeno per noi italofoni: Inkulator. No, non si tratta del seguito di “Virtual inseminator” o “Tabboz simulator”, i due videogiochi di culto dell’adolescente medio negli anni Novanta. Infelice crasi delle parole “ink” e “calculator”, Inkulator risolve esercizi matematici scritti “a mano” direttamente con il mouse, interpretando i nostri scarabocchi in un linguaggio comprensibile dal computer. Funziona, ma con quel nome è difficile che qualche italiano decida di comprarla senza temere fregature.

Oggi i nomi che terminano in -r, -er, o -or sono gettonatissimi. Ma non basta darsi un taglio hipster per avere successo: di Flickr ce n’è uno solo. Pensate a Zamzar, un software online in grado di convertire moltissimi tipi di file da un formato all’altro, o a iStalkr, che permette di tenere traccia dei propri feed RSS preferiti. Uno è già scomparso dalla circolazione, l’altro quasi. Con simili appellativi, del resto, era prevedibile. E che dire di Profilactic e di GoChongo, entrambe ormai defunte da anni? La stessa sorte toccata a Crush or Flush, dove la scelta per l’utente è tra innamorarsi o tirare lo sciacquone.

L’ironia involontaria ai tempi del web diventa irresistibile grazie alle URL, gli indirizzi che identificano i siti internet. Basti pensare a “Who Represents“, che vorrebbe rendere pubblici i nomi dei manager delle celebrità, ma incappa in un’epica gaffe 2.0 grazie all’indirizzo “Whorepresents.com” (“la prostituta presenta”); oppure a Pen Island, azienda che vende stilografiche di qualità, tramutatasi drammaticamente in “Penisland.net”; o ancora a Therapist Finder (network per terapisti e psicologi, ora offline), che nel linguaggio del web diventa “therapistfinder.com”, “colui che trova lo stupratore”.

Senza dubbio, la ricerca del nome giusto è uno dei passaggi più importanti (e faticosi) del processo che si cela dietro alla costruzione di un business online vincente. Bisogna trovare qualcosa che sia inedito, disponibile, che “faccia brand”, che sia breve, vincente e immediato, e soprattutto che sappia comunicare senza fronzoli all’utente lo scopo e la funzionalità dell’applicativo. Ad esempio, nomi come Soundcloud, EyeEm, e Urlist colpiscono nel segno. Bisogna fare attenzione, però: non bisogna strafare, l’errore è dietro l’angolo. E in un attimo ci si ritrova per le mani un progetto chiamato HubChilla, Yobongo o Splurgy

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