Lontanissimi politicamente, per mesi si sono contesi l’alleanza con il Pd di Pier Luigi Bersani. Beffardo, ora il destino li accomuna per l’ultima volta. Il leader Udc Pier Ferdinando Casini e il presidente di Sel Nichi Vendola sono costretti a farsi da parte. Sconfitti dal risultato elettorale, preferiscono togliere il disturbo. Stamattina il centrista non si è presentato al Consiglio Nazionale del suo partito, che ha aperto il processo interno dopo il crollo alle elezioni. Ieri il presidente pugliese ha deciso di lasciare il suo seggio alla Camera. Rimarrà alla guida del governo regionale, evitando di trasferirsi a Roma.
Due sconfitte clamorose, sicuramente diverse. Più imbarazzante la vicenda degli ex democristiani. Un dato su tutti: il gruppo Udc alla Camera era formato da 36 deputati, ne sono stati confermati solo 8. Il partito è sceso in picchiata fino all’1,78 per cento (ripescato in Parlamento come miglior perdente della coalizione). Dopo un paio di settimane di comprensibile silenzio, oggi Casini non se l’è sentita di incontrare i vertici del suo movimento. Al Consiglio nazionale che ha seguito la débacle elettorale, il leader centrista ha preferito inviare una lettera. «Per quanto mi riguarda so che una stagione si è chiusa e conservo verso ciascuno, a partire da Lorenzo Cesa e Rocco Buttiglione, un debito di riconoscenza profondo». Un addio? Non proprio. Casini è stato eletto senatore. Difficile, per ora, immaginare una sua sostituzione alla guida del partito. Anzi, l’ex presidente della Camera giustifica così la sua mancata presenza: «È necessario che il dibattito del Consiglio nazionale sia scevro da ogni condizionamento personale e da ogni riguardo anche nei miei confronti».
Effettivamente l’assemblea Udc non ha risparmiato un duro confronto interno. Nonostante l’approvazione quasi all’unanimità della relazione del segretario Lorenzo Cesa – sua la decisione di convocare il congresso entro la fine di aprile – le critiche non sono mancate. Al centro delle polemiche l’assenza del leader e la strategia elettorale. «L’alleanza con Monti si è rivelata un errore – il duro atto di accusa del decano parlamentare Mario Tassone – perché noi nulla abbiamo a che fare con i massoni e con le filiere dei banchieri. È stata decisa la liquidazione del partito rinunciando alla nostra sovranità e rimettendoci in decoro e dignità».
Molto diverso il passo indietro di Nichi Vendola. Sel ha raccolto meno voti del previsto, si è fermata al 3,2 per cento. Ma il partito è uno dei protagonisti della coalizione che ha conquistato il premio di maggioranza alla Camera. Anche per questo – miracoli del Porcellum – il movimento del governatore pugliese è riuscito a eleggere ben 37 deputati. Ieri Vendola ha confermato la sua decisione. Non si trasferirà a Roma, ma resterà alla guida del governo regionale. Entro la prossima settimana presenterà un nuovo esecutivo – senza gli assessori eletti in Parlamento – con cui concluderà la legislatura. Una scelta persino meritoria. Di fronte alla difficile fase che sta attraversando la Puglia, il governatore preferisce rimanere al timone. Senza abbandonare la sua terra.
Eppure anche la decisione di Vendola nasce dalla sconfitta elettorale. Da presidente del secondo partito di centrosinistra, il leader di Sel aveva diritto a un posto di governo. Quasi sicuramente da vicepremier. La scelta di rimanere in Puglia anticipa meglio di tanti retroscena giornalistici le difficoltà di un prossimo, eventuale, governo Bersani. Un progetto di cui neppure il maggior sostenitore – Vendola immagina da tempo un’intesa Pd-M5S – sembra troppo convinto.