In una torbida mattinata di metà marzo rimetto piede al Cairo dopo circa un anno di pesante assenza. Trovo la città svuotata dai turisti, più smarrita e povera del solito, tanto che i passanti di me, visibilmente straniera, stavolta proprio non si curano. Almeno fino a quando incontro un simsar per vedere un appartamento, il quale incuriosito indaga sulle ragioni della mia presenza. Il suo volto si illumina quando pronuncio la parola “turismo” e mi risponde: «Se Dio vuole, grazie ai Fratelli musulmani i turisti torneranno in Egitto».
Non era proprio la risposta che mi aspettavo. E allora inizio ad indagare per capire se è ancora vivo lo spirito della Rivoluzione egiziana, quello che nel 2011 ci aveva riempito di ottimismo. Il primo a darmi uno spunto interessante è Mahmoud, sulla cinquantina, l’uomo della lavanderia sotto casa. «Ci sono voluti 30 anni per farci odiare Mubarak ma solo 3 mesi per odiare Morsi», il presidente in carica rappresentante di un partito islamico moderato, Giustizia e Libertà, costola del movimento dei Fratelli Musulmani che è molto criticato.
Soffocati da una crisi economica che non lascia speranze per il futuro, gli abitanti del Cairo sempre più insistentemente se la prendono con chi sta al potere. L’immancabile tassista mubarakiano, mentre siamo bloccati nel traffico del centro, impreca e rivolgendosi a un uomo barbuto (quindi presumibilmente molto religioso) a bordo di un’altra auto: «Adesso che fate, lo votate un’altra volta questo qua?».
Mohammed Morsi, ha vinto le elezioni presidenziali nel giugno del 2012 con oltre il 51 per cento dei voti. Ma Amr Nazeer, un giovane ventitreenne del Cairo appassionato di street art, mi fa notare che si è trattato in molti casi (fra cui il suo) di un voto contro. «Si trattava di scegliere fra lui e Ahmed Shafiq, un esponente del vecchio regime di Mubarak che era invotabile dopo una Rivoluzione organizzata contro il suo stesso regime. E allora abbiamo scelto il caos, cioè votato Morsi».
In effetti a tenere lontani i turisti ci sono, non tanto gli eccessi degli estremisti islamici salafiti apparentemente in declino anche se chiassosi, quanto piuttosto gli scontri fra pro e contro il Presidente Morsi. Venerdi’ scorso, una nuova manifestazione si è svolta davanti al palazzo presidenziale dell’Ittihadiya, nel ricco quartiere periferico di Heliopolis.
Nella stessa giornata, scontri di minore intensità si sono registrati anche in sedi diverse della Fratellanza al Cairo. Alla fine il giornale al Ahram online ha scritto che in tutto il Paese ci sono stati almeno 200 feriti per episodi simili. Ci sono immagini interessanti sul sito del blogger egiziano Wael Abbas, un pluripremiato del citizenjournalism.
Francesco Schiro, italiano che insegna al Cairo da tempo, mi dice che alla radice del problema ci sono anche grandi quantità di armi entrate nel Paese. «L’altro giorno mi sono trovato per sbaglio a Shubra (un quartiere del Cairo ndr) mentre infuriava la battaglia», cioè gli scontri che, secondo i resoconti della stampa locale, sono scoppiati durante una partita di calcio in una scuola. «Il tassista ha dovuto fare marcia indietro perché – diceva lui – c’erano state scene da Far West, con spari e molotov». Alla fine ci hanno rimesso la vita 3 persone e due familiari di un noto esponente salafita sono stati arrestati perché accusati di aver scatenato le violenze. Quando lo racconto ad Hend Kheera, una ingegnere trentenne mamma di una bambina, lei sbuffa, abbassa lo sguardo e dice: «Ci sembra di stare in un film ma non abbiamo ancora capito chi è il regista».
Gli egiziani sono stanchi di una situazione che non pare migliorare. Firas Al Atraqchi, professore di Giornalismo all’Università Americana del Cairo ed ex staff di al Jazeera, teme che la situazione possa degenerare ancora durante l’estate, «quando l’acqua potrebbe mancare e l’incremento dell’uso di energia elettrica per i condizionatori provocare frequenti black-out».
Era già accaduto l’anno scorso. Ammar Abou Bakr, uno street artist trentenne molto apprezzato qui al Cairo (ma originario di Luxor), è convinto che qualcosa di importante accadrà molto presto. Ma non specifica altro. Quando invece chiedo a Fatenn Mostafa, gallerista del centralissimo quartiere europeo di Zamalek, che cosa lei si augura che accada, mi dice: «Che un golpe soft riporti i militari al potere».
È una voce che al Cairo circola da tempo ma sulla cui fondatezza in molti nutrono ancora grossi dubbi. I militari per ora restano sullo sfondo, alla testa di un impero finanziario. Poi Mostafa continua: «Durante la visita ufficiale in India, Morsi ha fatto un discorso con gravi errori storici. Lo ha scritto anche la stampa». Nazeer che fra i suoi parenti stretti ha membri della Fratellanza (ma anche un militare), mi dice: «Ai membri del movimento islamico è stato fatto il lavaggio del cervello». E spiega: «Sono convinti che il presidente Morsi non riesca a fare il suo lavoro perché glielo impediscono. Cioè, pensano ancora di essere le vittime del regime. Mentre invece adesso sono loro al potere».
Gli egiziani come lui sono stanchi di questo clima teso, ma non rassegnati. E si moltiplicano le iniziative volte a cercare di normalizzare la situazione.
Nel mese di aprile a Downtown Cairo, il quartiere cuore pulsante della capitale egiziana dove si trova anche Piazza Tahrir, si svolgeranno tre diversi festival di arte contemporanea e di strada. Mentre proprio in questi giorni si è chiusa la quinta edizione del Cairo International Jazz festival. «Viviamo una situazione complicata e difficile», mi dice Umm Muhammad (ma il nome è fittizio), sulla cinquantina, impiegata di un ministero, che di recente è stata rimossa dal suo incarico e rimpiazzata da un barbuto: «È un conflitto che deve restare composto, a bassa intensità, perché non sfoci in guerra civile».
Per fare una rima, come nella migliore tradizione dell’attivismo egiziano, c’è da sperare che ora la Rivoluzione si trasformi in Evoluzione.