Il primo film di Alina Marazzi, girato nel 2002, era stato un caso cinematografico: si intitolava Un’ora sola ti vorrei e, attraverso il montaggio di spezzoni di filmini familiari, ricostruiva la storia della madre della regista, una donna che dopo una lunga sofferenza psichica a 33 anni si tolse la vita, quando la Marazzi aveva solo sette anni. Quel film, così denso e delicato, così struggente, ricevette diversi riconoscimenti: il primo premio ai festival di Torino e Newport e le menzioni speciali della giuria a Locarno e al Festival dei Popoli di Firenze.
Il 2007 è stato l’anno di un altro documentario, Vogliamo anche le rose, un’indagine sull’evoluzione della condizione femminile tra gli anni Sessanta e Settanta, realizzata sempre attraverso il montaggio di filmati di repertorio. Il prossimo 11 aprile esce l’ultimo lavoro della Marazzi, Tutto parla di te, con Charlotte Rampling ed Elena Radonicich, un docu-film che si concentra sulla depressione post partum e che per la prima volta ha anche una parte di fiction.
Incontriamo Alina Marazzi a casa sua, in un’atmosfera domestica accogliente e semplice, dove si vedono le tracce della presenza di due bambini…
Pensando ai tuoi tre film, viene spontaneo riconoscere una vera e propria trilogia sulla donna, in particolare sulla donna-madre. È un progetto consapevole?
Di consapevole, più che altro, c’è la decisione e l’impegno che mi sono presa di indagare il femminile. Un’ora sola ti vorrei però è nato da un’esigenza tutta particolare, molto personale, e all’inizio non rispondeva a un vero progetto. Nella mia vita quel film è stato prima di tutto un punto di arrivo, ma effettivamente è diventato poi un punto di partenza. Con quel documentario ho capito tante cose, compreso il fatto che mi interessava continuare sulla strada del cinema “ibrido”, del documentario di narrazione, di montaggio. E al tempo stesso ho capito che volevo impiegare la possibilità che ho di fare film per parlare di donne, partendo dagli aspetti che interessano a me, con la presunzione di sperare che interessino anche ad altri.
C’è una sorta di specularità tra il primo e il terzo film di questa trilogia…
Sì, è come se avessi voluto chiudere un cerchio: nel primo film c’era il dolore di una donna vittima di una sofferenza psichica che l’ha portata al suicidio. In Tutto parla di te c’è una figlia, Pauline (Charlotte Rampling), diventata ormai una donna matura, che facendo un lavoro di ricerca e avvicinandosi a Emma, una giovane madre in crisi, trova il modo di riconciliarsi con la sua, di madre, che molti anni prima si era lasciata morire in un ospedale psichiatrico… Sì, sicuramente Tutto parla di te chiude un po’ i conti aperti con Un’ora sola ti vorrei.
Nel tuo ultimo film, c’è solo una figura maschile più approfondita, Valerio, che è un amico e forse un maestro per Emma, l’altra protagonista del film. Ma che non è il padre del bambino. Perché hai introdotto questo personaggio?
Volevo che ci fosse almeno una voce maschile positiva perché il film nasceva per parlare di maternità e per mostrare l’importanza che hanno le relazioni tra donna e donna nei momenti di estrema fragilità legati alla maternità. Però sono convinta che quel mondo fatto di attenzione e solidarietà non sia appannaggio solo delle donne. Ci sono anche uomini attenti, che guardano, osservano, ascoltano e sono vicini alla donna. Ma volevo che fosse chiaro che per me questo ruolo non deve per forza appartenere al padre del bambino o a un amante.
Il tuo, insomma, è un discorso sull’affidamento…
Sì, infatti le figure che si occupano di Emma e a cui le si affida sono tutte più grandi di lei, sono più adulte. Perché sono convinta che, nei momenti in cui ti senti persa di fronte alla tua creatura e alla fatica di crescerla, sia importante potersi affidare a qualcuno, uomo o donna, che diventano madre o padre putativi.
Alina Marazzi
Pauline, alla fine del film, dice infatti che le donne che soffrono di depressione post partum non vanno assolutamente lasciate sole, come invece era capitato a sua madre, che non era stata capita. E come forse era capitato a tua madre…
Infatti ho voluto che nel film fosse una donna di sessant’anni a ricordare e a parlare di sua madre, perché volevo che fosse chiaro che il problema della depressione post partum è sempre esistito e che in tutte le genealogie femminili a ben guardare c’è una zia, una cugina, una nonna, una bisnonna che è stata considerata “strana”, “matta”, mentre probabilmente di quello soffriva. Questo tipo di sofferenza nasce oggi come nasceva un tempo, quando questo genere di problema veniva taciuto o minimizzato. Oggi per fortuna la depressione post partum ha un nome, ci sono persone che fanno un lavoro sul territorio per aiutare chi è in difficoltà, c’è una rete di strutture e persone competenti quasi ovunque e a loro ci si può rivolgere, ci si deve rivolgere per ricevere ascolto e aiuto. La loro azione è fondamentale.
Mi pare evidente che per te l’indagine sul passato sia importante per capire il presente…
Sì, certo, fa parte della mia formazione. Un’ora sola ti vorrei mi ha permesso di rimettere a posto le cose della mia storia personale. A quel punto quello è diventato un metodo che poi ho seguito in ogni film. In Vogliamo anche le rose, per esempio, la domanda che mi sono posta è stata: chi sono io come donna oggi, come vivo le mie relazioni, il maschile e il femminile? La risposta l’ho trovata andando a vedere di che cosa sono figlia collettivamente.
C’è una dimensione nostalgica, o romantica, in questo tuo guardare indietro?
Assolutamente no, anche perché non potrei avere nostalgia di qualcosa che non ho vissuto. Il passato, al contrario, va interrogato come specchio del presente. E a questo scopo il cinema è uno strumento perfetto perché permette di portare il passato nel presente. Quello del cinema è il tempo del presente. Quando per esempio i diari vengono letti al presente, come accade in Un’ora sola ti vorrei, senza la mediazione del ricordo che usa l’imperfetto, allora il dispositivo narrativo si integra perfettamente con il senso del discorso che voglio portare avanti. E anche in questo mio ultimo film, il personaggio della Rampling, che appartiene a un’altra generazione e rievoca un tempo passato, mi permette di mettere in relazione e in continuità le donne del passato con quelle di oggi. A livello visivo questo obiettivo l’ho ottenuto con tutte le foto che popolano il film, foto di mamme con i loro bambini scattate oggi come trent’anni fa.
In Tutto parla di te per la prima volta hai fatto ricorso a parti di fiction. È stato difficile?
È stato più che altro un passaggio, un’evoluzione. E anche un’esigenza. Rappresentare l’ambivalenza del sentimento materno esclusivamente con la forma del documentario o montando materiale di repertorio diventava troppo difficile. Io volevo raccontare anche i non detti, le sensazioni, le emozioni che si vivono durante la maternità e quindi era necessaria una messa in scena. L’approccio è stato comunque documentaristico perché sono andata a intervistare le mamme, a vedere il lavoro che viene fatto dalle varie associazioni sul territorio. Sono partita comunque dall’indagine sulla realtà. Poi, da tutte queste storie vere e da testi che ho letto, ho tratto una sceneggiatura. Ho voluto da subito integrare la parte di fiction con le testimonianze, ma anche con altri linguaggi visivi che lavorano su un piano simbolico, come ad esempio la parte in stop motion.
I filmati di repertorio in bianco e nero sono tutti originali?
Sì, sono filmati familiari trovati in un archivio a Bologna che appartiene a Home Movies, un’associazione che raccoglie filmati amatoriali da tutta Italia.
Le immagini fotografiche in questo film, invece, mi hanno ricordato gli scatti di Francesca Woodman, la geniale fotografa americana che si è uccisa nel 1981 a soli 22 anni. Ti sei ispirata a lei?
Sì, io avrei voluto utilizzare proprio gli scatti della Woodman, perché le sue figure che si nascondono intrappolate nelle mura di case abbandonate mi sembravano perfette per evocare come ci si sente a volte quando bisogna accudire un neonato giorno e notte: quella sensazione di essere da un lato fuori fuoco e dall’altro di essere in gabbia. Ho contattato i genitori della Woodman per chiedere la liberatoria all’uso delle foto, ma non me l’hanno concessa. Allora ho lavorato con una fotografa, Simona Ghizzoni, per ricreare quelle atmosfere.
Il tuo progetto sulle donne non si esaurisce con il film…
No, abbiamo creato anche un sito, www.tuttoparladivoi.com, che è una sorta di web documentario, costruito da due parti, una narrativa e una partecipativa. Propone infatti narrazioni raccolte attraverso un bando che abbiamo diffuso in Rete e non solo. Ci sono storie scritte da madri, o anche materiale video o audio, e c’è anche altro materiale prodotto da noi, con interviste a ostetriche, pedagogiste, psicanalista per allargare il punto di vista sulla maternità. Questo luogo su internet vuole essere un’occasione di riflessione per approfondire i temi del film e per raccogliere una pluralità di voci, che possono essere ovviamente anche positive. Mi piaceva pensare al film come a uno strumento che serve sì per emozionare, per far riflettere, ma anche come punto di partenza per dare seguito ad altre esperienze, ad altri punti di vista. In questo modo il film diventa un elemento di ipertesto che può prendere diverse forme. Ci tenevo molto a dare il via a un’azione più orizzontale, più partecipata.