Bpm, Bonomi oltre alla Spa vuole una nuova governance

Bufera nell’istituto lombardo

Un nuovo consiglio di sorveglianza e una nuova forma societaria. È questo il duplice obiettivo di Andrea Bonomi, presidente del consiglio di gestione della Banca popolare di Milano – appoggiato dalla Banca d’Italia – per l’assemblea del prossimo 22 giugno. Un’impresa ardua, se non altro per il poco tempo a disposizione per trovare 18 nuovi membri del consiglio di sorveglianza, rispetto ai 14 superstiti. Dopo le dimissioni, ieri, del presidente Filippo Annunziata,  nel corso della riunione odierna del consiglio di sorveglianza hanno infatti lasciato la poltrona anche Federico Fornaro (Pd), espressione della Cassa di risparmio di Alessandria, Cesare Piovene, in quota Investindustrial, e Alessandra Pontiggia, un passato in Rcs e vicina a Bonomi. Tre uscite che arrivano ad appena tre giorni dall’assemblea dei soci per l’approvazione del bilancio 2012. 

«Incandescente», è la parola più utilizzata per descrivere la situazione di perdurante tensione che da mesi paralizza i meeting dei consiglieri. Una divisione in due fazioni – pro e contro la Spa – su una questione che tecnicamente non compete nemmeno a un organo che, a differenza di Intesa Sanpaolo (istituto che adotta il modello duale di governo societario, ndr), non ha funzione di supervisione strategica. Tant’è che il progetto “Idea”, ovvero l’alternativa alla trasformazione in Spa ibrida, sarebbe stato presentato non nella sede opportuna – l’assemblea dei soci – ma nell’assise del consiglio di sorveglianza dello scorso 4 aprile. Una mossa che avrebbe messo in allerta il comitato per il controllo interno, il quale starebbe pensando di presentare un esposto a Bankitalia. 

Per Bonomi la strada per raggiungere la modernizzazione di un istituto con 150 anni di storia cooperativa alle spalle è tortuosa e in salita. Da risolvere ci sono questioni tecniche come il conferimento del Tfr dei dipendenti nella Fondazione, le cui modalità sono ancora allo studio, ai 10-13mila euro che andrebbero a ogni dipendente una volta conferite loro nuove azioni pari al 10% del capitale sociale dell’ipotetica Spa. Una cifra ben lontana dai 50mila euro di cui si discuteva nei mesi scorsi. Al netto dei giudizi sulla bontà della società cooperativa, rinunciare al voto capitario non è una decisione banale, in assenza di ampie garanzie. Eventualità che, lamentano alcuni sindacalisti, non si sarebbe ancora verificata. 

Intanto, in una nota firmata dal coordinatore, Matteo Magrini, la Fabi ribadisce il suo niet al voto elettronico. L’idea di modificare lo statuto all’assemblea di sabato prossimo, vista dai sindacati come un mezzuccio da parte di Bonomi per aggregare consenso, è stata bocciata come impraticabile «perché snaturerebbe uno dei valori fondanti del modello di governance popolare: la partecipazione. Riteniamo che tale valore non debba essere banalizzato con modalità di voto degne di un talent show». Un modus operandi respinto anche dal parere legale richiesto dal consiglio di sorveglianza allo Studio Benessia. Ancora da capire, infine, se le riserve basteranno a ripagare i soci. Ovvero, se l’aumento di capitale da 500 milioni sarà completamente a servizio dei Tremonti Bond sottoscritti nel 2009. 

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