PECHINO – I Brics sono una profezia che si autoavvera. Il termine, coniato nel 2001 come “Bric” (senza Sudafrica) da Jim O’Neill, presidente di Goldman Sachs Asset Management, diventò un organismo vivente nel 2009, quando Brasile, Russia, India, Cina si riunirono per la prima volta, per poi accogliere Pretoria nel club un anno dopo. O’Neill prevedeva che entro il 2020 la somma delle quattro economie emergenti avrebbe raggiunto le dimensioni di quella Usa. Oggi si dice che la Cina presa singolarmente supererà già nel 2016 Washington in termini di Pil.
A Durban, le cinque maggiori economie emergenti hanno appena concluso il loro summit. Tutti i media angloamericani si sono affrettati a specificare che il bicchiere è mezzo vuoto, il che lascia il sospetto che sia invece mezzo pieno. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica hanno infatti gettato le basi per la costituzione di una “Banca dello sviluppo” alternativa alla Banca mondiale e approvato da subito un fondo anticrisi da 100 miliardi per le emergenze, mentre Cina e Brasile hanno sottoscritto un accordo bilaterale per commerciare nelle proprie valute (leggi “fare a meno del dollaro”). Sul piano politico, i cinque hanno ribadito la loro opposizione a qualsiasi intervento armato in Iran e Siria.
Certo – si dice – la fantomatica banca non si vede ancora. I cinque Paesi hanno discusso il suo finanziamento sulla base di 50 miliardi di dollari in capitale, ma non c’è stato alcun accordo sul fatto che debbano sborsare in egual misura – 10 miliardi di dollari ciascuno – o se invece i contributi debbano riflettere le differenze di prodotto interno lordo. C’è anche di mezzo la questione delle cariche interne al nuovo istituto finanziario, e su come e a chi sarà prestato il denaro: quali società, cioè, beneficeranno della sua generosità. Anche sulla scelta della futura sede dell’istituto siamo ancora in alto mare.
Qualche scettico ride sotto i baffi pensando alla “Banca del Sud”, che il defunto presidente venezuelano Chavez aveva concepito proprio in funzione anti-World Bank. E che non è mai decollata.
Tuttavia il paragone non regge: qui stiamo parlando di Paesi che congiuntamente rappresentano il 43 per cento della popolazione mondiale e riserve valutarie da 4,4 miliardi di dollari. Paesi che, un giorno sì e l’altro pure, esprimono il desiderio di fare del proprio club il nocciolo duro di un mondo multipolare, non più ancorato al sistema di Bretton Woods, al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale. Questo concetto lo esprimono in forma diversa, ma lo esprimono.
Gli scambi all’interno del gruppo sono così cresciuti di oltre dieci volte in dieci anni (dai 27 miliardi di dollari del 2002 ai 282 del 2012) e il totale degli investimenti diretti in altri Paesi ha raggiunto 263 miliardi dollari lo scorso anno, pari al 20 per cento dei flussi globali di investimenti diretti. Era il 6 per cento nel 2000. Quanto alla “banca dello sviluppo”, voluta soprattutto da India e Brasile, fino a un anno fa non esisteva neanche nelle migliori intenzioni. Oggi è un progetto.
Ancora più significativo è il parere di Jim O’Neill, proprio lui, l’inventore dei Bric senza “S”. In un’intervista a Der Spiegel ha annunciato pochi giorni fa le sue prossime dimensioni da Goldman Sachs senza escludere una futura carica all’interno del gruppo, aggiungendo che i Bric “hanno superato tutte le aspettative. In poco più di un decennio il Pil del gruppo è passata da circa 3mila miliardi di dollari a 13mila miliardi. I Bric hanno il potenziale per evitare una recessione globale e per crescere più velocemente del resto del mondo e, facendo da motore della crescita, possono trascinare con sé tutti noi”.
Qui però le sviolinate si arrestano e il fatto che a distanza di dieci anni O’Neill dica ancora “Bric” e non “Brics” non è un refuso. Al proprio interno il gruppo è infatti molto sbilanciato e non tutti sono sicuri che il Sudafrica ne faccia parte. Il suo Pil è il ventottesimo al mondo, mentre la Cina è seconda, il Brasile sesto, la Russia nona e l’India decima. Pretoria rappresenta attualmente solo il 2,5 per cento della ricchezza complessiva dei Brics. L’economia cinese è circa venti volte più grande di quella del Sudafrica, oltre che quattro volte quella russa o indiana.
Proprio sulla base delle rispettive ricchezze, nel fondo anticrisi da 100 miliardi di dollari, la Cina dovrebbe contribuire con 41 miliardi, Brasile, Russia e India con 18 ciascuno e Sudafrica solo con cinque.
I rapporti tra il partner maggiore e quello minore dicono molto sull’eterogeneità del gruppo. Gli scambi commerciali tra Cina e Sudafrica hanno raggiunto circa 60 miliardi di dollari lo scorso anno, quasi un terzo del totale del commercio tra Cina e Africa. Ma anche se è definito “win-win” (ci guadagnano tutti) o “south-south” (cioè tra due Paesi del “sud del mondo”, collocazione che la Cina ama darsi tutt’ora), il rapporto è altamente diseguale. Così come avviene nelle relazioni tra Pechino e mezza Africa, Pechino fornisce investimenti e infrastrutture, Pretoria spedisce oltre Muraglia carichi di materie prime (il 60 per cento è costituito dalle esportazioni di minerale di ferro).
Poste queste diseguaglianze interne, per capire che fine faranno i Brics bisogna dunque guardare soprattutto a Pechino: il punto è proprio come la Cina eserciterà il proprio ruolo di primus inter pares. È necessario infatti un cambiamento del modello esportato finora dal Dragone.
Il viaggio di Xi Jinping in Africa, nel sovrapporre l’agenda dei Brics a quella bilaterale con i singoli Paesi, è da questo punto di vista molto simbolico. La politica africana di Pechino ha finora cercato di conseguire tre obiettivi: ottenere materie prime, avere l’appoggio degli Stati del continente nelle sedi internazionali, puntare alla crescente middle-class africana come mercato per l’export.
Tuttavia, dopo il flirt iniziale, la Cina si scontra oggi con la crescente ostilità delle popolazioni locali per la presenza invasiva delle imprese e della manodopera cinesi. Presenza di cui non sempre beneficiano gli autoctoni.
Il fatto è che Pechino sta quasi meccanicamente esportando nel continente africano gli stessi problemi che ha all’interno: dissesto ambientale, dubbia responsabilità sociale delle imprese, pochi diritti per i lavoratori e scarso rispetto delle regole.
Torniamo alla “banca dello sviluppo”. La sua idea di fondo è quella di veicolare il surplus commerciale dei Brics verso la crescita di altri Paesi. Ma sono soprattutto le riserve cinesi (le più cospicue) a essere in questione. La domanda è: serviranno a garantire sviluppo diffuso o a incrementare sempre più la presenza cinese all’estero, con tutti i problemi che si porta dietro? Qui passa lo spartiacque, nonché la capacità della Cina di competere con gli Usa sul piano del soft-power: la sottile arte di “piacere”. Qualcosa su cui Pechino ha ancora molta strada da fare.