“Cari imprenditori italiani, dovevate investire di più”

La crisi del lavoro e delle imprese

«Le imprese non investono o investono pochissimo, meno del già scarso autofinanziamento». Ne è convinto Riccardo Gallo, ultimo vicepresidente dell’Iri e docente di Economia applicata alla Sapienza di Roma, che spiega a Linkiesta: «Oggi lo spartiacque nella crisi è tra imprese che hanno macchinari e imprese che non li hanno». «Queste ultime», osserva l’economista: «chiudono per insolvenza e mancanza di liquidità. Nessuno paga, loro non incassano e le banche si rifiutano di dare prestiti per coprire le perdite». Gli istituti di credito, nota ancora Gallo, «per insipienza e caduta di professionalità hanno paura di non saper valutare il merito di credito di un cliente». 

Confindustria chiede da tempo che la politica riduca tre spread: costo dell’energia, costo del credito e tassazione, per rendere l’Italia competitiva. Lei sostiene, numeri alla mano, che gli imprenditori hanno smesso di essere competitivi. Come mai?
Io dico che da anni le imprese italiane non investono o investono pochissimo, meno del già scarso autofinanziamento. Avevo rilevato questa tendenza due anni fa, ed è proseguita, accentuandosi, per tutto il 2011: impianti e fabbriche, via via che vengono totalmente ammortizzati, invece di essere chiusi e sostituiti attraverso nuovi investimenti, continuano a produrre. La conseguenza è che la loro vita utile si allunga, è come se invece di produrre nuovi allevamenti, si mungessero mucche vecchie fino a che da un giorno all’altro crepino. Basti considerare che nel 2003 la vita utile dei macchinari era calcolata mediamente in 16 anni per le società industriali italiane medie e grandi, oggi la vita utile sulla quale si fa affidamento è 26 anni, 10 di più. Il secondo dato importante che emerge dall’analisi delle imprese industriali censite da Mediobanca riguarda l’autofinanziamento, nel 2011 pari a 15,5 miliardi, contro investimenti per appena 2,3 miliardi di euro. Significa che 13 miliardi sono rimasti inutilizzati. E per giunta l’autofinanziamento del 2011 è stato notevolmente più basso rispetto ai 23,2 miliardi del 2007. Il dato ci offre un’altra indicazione: quasi tutti gli utili sono stati distrbuiti come dividendi. Una misura della disaffezione degli imprenditori che prendono gli utili e non reinvestono nemmeno ciò che rimane al netto della loro distribuzione.

Qual è la causa? La crisi? La scarsa cultura d’impresa?
Ci sono molte risposte. La prima: quando nel 2005 curai un volume dal titolo “Le condizioni per crescere”, scoprii che l’imprenditoria italiana era una delle più anziane nel mondo ed era prossima a un ricambio generazionale epocale, e quindi era un momento delicato. Sono trascorsi otto anni ed è possibile che la nuova generazione sia meno affezionata all’impresa come una volta. Non si può escludere che sia un problema imprenditoriale. Seconda risposta: con l’introduzione dell’euro non si può più svalutare, e le imprese italiane non riescono a essere competitive senza svalutazione. Le estreme conseguenze di questo ragionamento portano alla soluzione dell’uscita dall’euro. Terza risposta: l’imprenditoria non trova più conveniente investire in questo Paese e quindi la colpa è dei governi che l’hanno reso non più competitivo. E qui ritornano i punti denunciati da Confindustria: tax rate, costo del credito e dell’energia. In questo quadro, il dato diffuso stamani dall’Istat sulla produzione industriale (a febbraio -3,8% anno su anno, ndr) è lo specchio dell’andamento del disimpegno, ed è spiegabile non tanto a livello congiunturale, ma soprattutto come conseguenza della mancata sostituzione di impianti di produzione destinati alla chiusura. Sul tax rate lo Stato è doppiamente colpevole: la Pa e la giustizia civile non funzionano, e in più gli utili se li piglia lo Stato.

Questi fattori sono cambiati nel corso della crisi?
C’è una forte differenza tra aziende medio-grandi e micro-piccole. Oggi lo spartiacque è chi ha impianti di produzione e chi no. Chi li ha, come le medie e le grandi imprese, non investe. I piccoli, invece, hanno un altro problema: chiudono per insolvenza e mancanza di liquidità. Nessuno paga, loro non incassano e le banche si rifiutano di dare prestiti per coprire le perdite. Gli istituti di credito, poi, per insipienza e caduta di professionalità hanno paura di non saper valutare il merito di credito di un cliente. Attenzione, non sto dicendo che le banche debbano prestare a tutti, ma che sono diventate insipienti.

Colpa dei rating interni? Del budget da rispettare?
No, è proprio una questione culturale. Il banchiere locale conosceva la piccola impresa benissimo, oggi pochi sanno trattare i clienti. C’è anche un’altra ragione storica: anticamente esistevano gli istituti di credito industriale che furono comprati dalle banche di credito commerciale (il San Paolo comprò l’Imi, il Banco di Sardegna il Cis e via dicendo). Passata quella generazione la cultura dell’analisi industriale è finita e non è stata sostituita. Trovo che ci sia una completa dequalificazione dei quadri professionali delle banche italiane. Le banche non danno più mutui, non c’è più il credito industriale a medio-lungo termine, esiste solo quello a a breve, non ci sono investimenti, manca una sufficiente cultura delle banche.

Perché Confindustria non è riuscita a portare avanti le ragioni dell’impresa?
Per rispondere dobbiamo andare a vedere lo spostamento del potere nel territorio, nel senso che oggi il potere politico è sceso dal governo centrale alle regioni e agli enti locali, e quindi simmetricamente è aumentato il potere delle associazioni territoriali d’impresa rispetto alla Confindustria centrale. Il governo è debole e altrettanto lo è il vertice di Confindustria. D’altronde, se un governo tecnico sceglie come ministro per lo Sviluppo Economico il banchiere capo della più grande banca italiana è chiaro che la Confindustria qualche problema lo incontra.

Nemmeno Borsa Italiana, che le ha provate tutte, è riuscita a incentivare le imprese a quotarsi.
Questo è un fatto antico e strutturale perché il mercato dei capitali in Italia non esiste, quindi non è solo che le imprese non vanno in borsa, è che manca un vero e moderno mercato dei capitali.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter