Contestualmente alla diretta video riproponiamo la nostra analisi del 14 aprile
Fare per Fermare il declino ha rischiato di essere il partito col nome più lungo e la vita più breve tra quelli presenti alle scorse elezioni. Dopo quel pasticciaccio brutto sui titoli accademici inesistenti di Oscar Giannino, Fare è stato per un po’ di tempo in bilico sull’orlo del precipizio. Le dimissioni di Giannino, precedute da quelle di Luigi Zingales e seguite da quelle – poi rientrate – di Michele Boldrin, avevano lasciato un partito orfano di tre dei fondatori, frastornato da un risultato elettorale (1,1%) molto al di sotto delle aspettative e ancor di più dalle spaccature interne e dagli psicodrammi dei suoi esponenti più prestigiosi che hanno portato all’azzeramento della dirigenza. Sopravvissuto alla tempesta, Fare cerca ora di rigenerarsi attraverso il percorso, non privo di insidie, dei congressi.
Gli iscritti saranno chiamati a votare online per i congressi regionali il 4 e il 5 maggio. In quella stessa data dovranno indicare i 100 delegati nazionali che il fine settimana successivo terranno il congresso nazionale. «Per ora gli iscritti di Fare sono circa 8 mila», dichiara Silvia Enrico, membro della direzione nazionale dimissionaria – che ha il ruolo di traghettare il partito fino ai congressi – e che fu brevemente coordinatrice nazionale dopo le dimissioni di Giannino. «Speriamo che il numero cresca fino a 10mila nel prossimo mese».
La direzione nazionale è stata convocata con il preciso incarico di modificare lo statuto per poter indire formalmente i congressi (le cui regole sono state scritte da Carlo Stagnaro e Sandro Brusco) e di approvare la relazione sul bilancio. Ma a tenere in vita il partito più che gli organi apicali è stata la base. «Ci sono arrivate diverse richieste da parte dei nostri iscritti – prosegue Silvia Enrico – di poter presentare candidature col simbolo di Fare alle prossime amministrative. Noi ci siamo sempre espressi, tranne una sola volta mi pare, in senso favorevole dando anche disponibilità ad aiutare il livello locale. Ma sono così ben organizzati che non hanno nemmeno avuto bisogno del nostro aiuto». Parlando di amministrative ovviamente la più importante di questa tornata è l’elezione del sindaco di Roma. E su quel fronte Fare sta ancora discutendo se presentarsi o meno, vista anche l’incertezza della linea politica fino al termine del percorso congressuale.
La compattezza – più o meno – della base e la sua determinazione ancora non si riflettono nella dirigenza. Le ruggini accumulate durante l’ultimo scorcio di campagna elettorale e le settimane immediatamente successive, con sospetti pubblicamente confessabili su facebook e accuse per niente velate di intelligenza col nemico, faticano a scomparire. Alla conta interna il partito rischia, per ora, di presentarsi diviso. Da un lato ha presentato la sua candidatura alla presidenza Michele Boldrin, pare con l’intenzione di traghettare il partito fino al successivo congresso, previsto per l’autunno e ispirato a regole ancora più democratiche e partecipative di quelle attuali. Dall’altro la corrente che potremmo definire “gianniniana” è divisa tra due mozioni: una, a firma Daniele Zotti, Giordano Masini e Gherardo Magnini, che chiede a Fare di collocarsi chiaramente nell’area del centrodestra italiano per diventare un partito liberale; un’altra, sostenuta da Alessandro De Nicola e Giambattista Rosa, è più conciliante e chiede sostanzialmente di tornare all’unità del partito. Fabio Pazzini, membro della direzione nazionale e già responsabile della scorsa campagna elettorale, auspica «una sintesi tra queste due posizioni, che possa poi essere portata al congresso».
Una mozione minoritaria tra i dirigenti, ma che potrebbe raccogliere consenso tra i militanti, viene dal coordinamento dei comitati ed è detta “la terza via” rispetto alle due correnti sopraccitate. Si propone di fondare una nuova associazione, lasciando la scatola vuota di Fare ai capi litigiosi, ripartendo dal basso e spurgando così tutti i veleni accumulatisi nel tempo. Al momento però manca ancora una candidatura alla presidenza che sintetizzi questa posizione e la porti al congresso. Chi si è invece candidato, unico finora a parte Boldrin, è Fulvio Graziotto, cinquantenne di San Remo. La sua proposta è di dare al partito una prospettiva “glocal”, accentuando il potere di iniziativa della base e del livello locale.
«Il problema – spiega ancora Silvia Enrico – è che nessuna di queste mozioni rappresenta la maggioranza all’interno di Fare. Bisogna trovare unità e all’interno della base questa volontà c’è. Il difficile è trovare dei nomi che incarnino questa richiesta di compattezza, ma a tutti i costi si deve evitare l’impressione di due fazioni che si scontrano in una lotta in cui chi soccombe è costretto ad andarsene».
Chi se n’è andato e ora osserva, penitente ma sornione, gli sviluppi del partito che fu suo è Oscar Giannino. Si è imposto il ruolo di “più umile degli iscritti” di Fare, non perde occasione per ricordare come «la botta atroce di credibilità collettiva rappresentata dall’esplosione della mia vicenda non ha mai avuto in me uno sminuitore». Anzi. Sordo per ora ai molti appelli che su Twitter e Facebook lo invitano a candidarsi, si limita a fare le sue osservazioni pubblicamente, chiedendo agli aderenti di Fare di mettersi alle spalle quel che è successo (loro che possono, lui evidentemente no) e di portare al congresso un ragionamento ampio.
In un lungo post sul suo profilo Facebook, il 3 aprile Giannino invita i “fattivi” a ragionare su due temi: il metodo democratico, che certo deve appoggiarsi al web ma evitando le storture viste nel movimento di Grillo; e il posizionamento politico. «Si tratta di dire esplicitamente – scrive Giannino – se si ritiene di far concorrenza a M5S nell’intercettare la pura protesta. Se “siamo per Renzi” valga egualmente con il sindaco di Firenze candidato premier di un Pd che resti eguale a se stesso, nel qual caso da parte mia auguri a chi si candida a far da strapuntino […] Oppure se “siamo per Renzi” valga solo a patto di un radicale chiarimento che costi al Pd inevitabili spaccature e convergenze assai più ampie di Fare, cosa che è ben diversa ma attualmente più improbabile. Oppure, ancora, se l’azione di deberlusconizzazione dell’elettorato di destra […] non imponga una strada distinta ancora, che guardi al 10% dei voti andati a Monti […]. Io non lo vedo ancora – conclude Giannino – questo secondo pezzo di ragionamento. Sono cieco e sordo io? Può essere». O forse, vista la vaghezza della maggior parte delle posizioni in campo, può anche non essere.
Il rischio che corre il partito è quello di andare a un congresso sui nomi e non sulla linea politica, per trovarsi poi coi primi bruciati da una lotta interna e la seconda mai decisa per assenza di discussione. Botte vuota e moglie sobria: niente da Bere per Dimenticare il declino.