Con l’addio di Bersani è iniziato il funerale del Pd

Dopo il giorno più lungo

«Stasera si è celebrato il funerale del Partito democratico». C’è «amarezza», «sconforto», una giornata lunghissima si è appena conclusa, e i visi dei democratici che escono dal teatro Capranica la dicono tutta sulla stato di salute di Largo del Nazareno. «Non sappiamo cosa andare a votare al quintoscrutinio; per questo motivo opteremo per la scheda bianca», confida un giovane parlamentare. E «non sappiamo nulla su cosa ne sarà il Pd». È in gioco l’esistenza stessa del movimento, ma adesso c’è da eleggere il Capo dello Stato, «onestamente ci preoccuperemo dopo del congresso e di tutto il resto».

Dicevamo della lunghissima giornata. Una giornata iniziata con un lungo applauso quando Pier Luigi Bersani ha portato sul tavolo dell’assemblea dei grandi elettori la nomination di Romano Prodi. Un lungo applauso che sembrava avesse ricompattato i democratici. «È il nome giusto», «con Prodi avremo un grande Presidente della Repubblica», «ha le carte in regole per salire al Colle». Entusiasmo, con tutti i big che escono dal Capranica e che mostrano alle telecamere il sorriso.

«Ma non c’è da festeggiare, l’applauso è apparente», mugugna un bindiano di ferro. Sul nome di Romano Prodi lo stato maggiore del Pd, e le diversi correnti, non possono opporsi «perché Romano è il fondatore del progetto del partito dei democratici». In realtà inizia un lavorio che porta dritto dritto «all’affossamento dell’operazione Prodi». Con i dalemiani in testa che sotto traccia cercano di far tornare in pista il lider Massimo, e gli ex popolari di Beppe Fioroni scontenti perché è saltata la nomination di Franco Marini. Nei corridoi del Palazzo capannelli di deputati vicini all’ex presidente del Consiglio parlottano cercando di evitare i cronisti. Si vocifera di un Massimo D’Alema che avrebbe confidato a Pier Ferdinando Casini di voler affossare Romano Prodi. «Solo voci», sbottano i democratici di rito bersaniano. «Non c’è nulla di vero: siamo tutti con Prodi». E la prova che siano tutti con Prodi, anche i dalemiani, giunge in Transatlantico quando alcuni dalemiani leggono la lettera che avrebbe inviato l’ex ministro degli Esteri ai fedelissimi nella quale avrebbe chiesto “senza se e senza ma” di non fare scherzi e di votare Romano Prodi. Un segnale «importante» che rintuzza apparentemente i malumori fra le varie anime dei democratici.

Tutto qui? Macché. Gli sherpa del segretario nazionale vogliono conquistare i grandi elettori del M5S. E allora si servono della presenza del governatore della Sicilia Rosario Crocetta, fautore del cosiddetto “Modello Sicilia”, e che ha ottime entrature nella galassia dei grillini. Ma non c’è trippa per gatti. I grillini si arroccano su Stefano Rodotà, e non intendono cambiare rotta e orientarsi sul fondatore del Pd.

Nel frattempo si procede alla terza votazione. E più di un parlamentare, nonostante l’ordine di scuderia sia scheda nulla, vota per Massimo D’Alema. «34 voti la dicono tutta su D’Alema», sussurano. «Chi l’avrà votato?», si domandano alcuni giovani neo parlamentari dei democratici. «Sara stato votato dai pdiellini?». Ma no, «anche il Pdl ha optato per la scheda nulla». Vabbé, «saranno stati i montiani, che c’importa», sorridono. In realtà ci sarebbero anche gli ex popolari, che a taccuini chiusi rumoreggiano. «Se avessimo messo ai voti Prodi, sarebbe andato sotto». Anche Dario Franceschini avrebbe mal digerito il cambio rotta. Per l’ex democristiano l’uomo giusto resta sempre Franco Marini. E «per il Presidente della Repubblica avremmo dovuto allargare il fronte», spiega un parlamentare vicinissimo all’ex capogruppo dei democratici.

Quando sta per iniziare la quarta votazione, quella decisiva, quella che dovrebbe incoronare l’ex Presidente del Consiglio, tira una brutta aria alla buvette di Montecitorio. Un bindiano si lascia andare: «Bersani ha fissato l’asticella a 470. Sotto quella cifra non riproporremo Prodi, e potrà succedere di tutto».

Intanto un ex ministro del governo D’Alema la butta lì: «Ci saranno sorprese». E le «sorprese» sono dietro l’angolo. Perché quando inizia il quarto scrutinio si nota un dettaglio che fa tornare in mente gli anni della Prima Repubblica. Il particolare è un amarcord democristiano. I voti che incassa Romano Prodi si differenziano. Alcuni optano per “R.Prodi”, altri per “Prodi Romano”, altri ancora “Romano Prodi”. E poi, come segnalano a Linkiesta, si annoverano 47 consensi per il giurista Rodotà che lasciano il segno. Sono quelli «S. Rodotà». Sarebbero 47 fra dalemiani ed ex popolari, rivelano a Linkiesta. È il caos. A scrutinio concluso i franchi tiratori saranno 101. Romano Prodi è nettamente sotto la soglia dei 470, e addirittura sotto i 400. E Massimo D’Alema si ferma a 15 voti. Ma «è comunque un segnale».

All’interno del Pd è un tutti contro tutti. Con Felice Casson che dice ai cronisti: «Chiedete a D’Alema e Fioroni se ci sono stati i franchi tiratori». E Beppe Fioroni che non ci sta, e rinfaccia: «Sapendo delle sciocchezze che circolano abbiamo fotografato la scheda con scritto Prodi». I giovani del Pd vengono messi sotto accusa: «Sarebbero stati loro», rincara un ex comunista. «Perché i giovani non ce l’hanno fatta, e si sono fatti travolgere dalla gente che spinge per Rodotà».

Il partito esplode. In Transatlantico i pdiellini sorridono solo a guardare le facce dello stato maggiore del Pd. Il segretario del Pd si rifugia in una sala di Montecitorio, e riunisce il gruppo che in questi mesi ha retto la segretaria. Ma Rosi Bindi, colei che una settimana fa ha rilasciato un’intervista molto critica sull’operato del segretario, poco prima di cena rassegna le dimissioni. «Il 10 aprile ho consegnato a Pier Luigi Bersani una lettera di dimissioni da presidente dell’Assemblea nazionale del Pd. Non sono stata direttamente coinvolta nelle scelte degli ultimi mesi né consultata sulla gestione della fase post elettorale e non intendo perciò portare la responsabilità della cattiva prova offerta dal Pd in questi giorni, in un momento decisivo per la vita delle istituzioni e del Paese». Parole forti che scatenano il puteferio. E si aggiungono a quelle di Romano Prodi che è «sconcertato», e chiede le dimissioni di Pier Luigi Bersani: «Chi mi ha portato a questa decisione deve farsi carico delle sue responsabilità. Io non posso che prenderne atto». Del resto, «era normale che Romano reagisse così: oggi si conclude la sua carriera politica», spiega un ex dirigente dei Ds.

Ma il puzzle si completa quando fra i democratici si diffonde la notizia che «Bersani starebbe per dimettersi». «È un dramma», mormorano i giovani turchi. «Finalmente, avrebbe dovuto farlo prima», rincarano i renziani. Dopo poco arriva l’ufficialità: il segretario Pier Luigi Bersani si dimetterà un minuto dopo l’elezione del prossimo Capo dello Stato. Del resto «più da una cosa nella ditta non ha funzionato». Ma adesso «dobbiamo pensare al Paese che non ha un governo e sopratutto un Presidente della Repubblica». E per il Colle, come garantisce Nicola La Torre, dobbiamo «comportarci come sette anni fa, quando pur potendo eleggere Massimo D’Alema ritirammo la sua candidatura perché divisiva e mettemmo in campo Giorgio Napolitano che, pur non votato dal centrodestra, non fu certamente osteggiato». Ma, sussurrano dal Nazareno, «la candidatura di D’Alema sarebbe ancora un’ipotesi abbastanza forte». Nonostante la giornata di oggi, nonostante «il funerale del Pd».

Twitter: @GiuseppeFalci

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