“Confindustria, basta Roma: vai sul territorio”

Per lo storico dell’industria necessaria una riforma di viale dell’Astronomia

«Confindustria deve andarsene da Roma». È tranchant Giuseppe Berta, storico dell’Economia e dell’Industria all’Università Bocconi di Milano e tra i massimi esperti di Fiat, che spiega a Linkiesta: «La cosa più giusta da fare è estinguersi. La vita vera delle associazioni non sta a Roma ma sul territorio, dove le associazioni hanno una funzione di sviluppo. Tutto il resto sono chiacchere e retorica». 

Oggi e domani a Torino si riuniranno i rappresentanti della piccola industria di Confindustria, tra gli ospiti ci saranno Bonanni e la Camusso. Ancora una volta si parte dalla concertazione?
È l’immagine speculare dell’impotenza dei partiti, il rischio è di fare chiacchere con la logica del talk show, che non portano a proposte concrete per il Paese, ma a una retorica consunta fine a sé stessa.

Come mai Confindustria ha finito le idee?
Per rispondere è necessario un excursus storico. Non è vero che la Confindustria è stata fondata nel 1910, perché all’epoca non si fece nient’altro che estendere e generalizzare gli oganismi della rete degli industriali di Torino, che diventarono gli organi di coordinamento delle associazioni industriali del Nord, tanto che il primo presidente e direttore furono quelli della lega industriale torinese. Dante Ferraris, vicepresidente della Fiat – anche se per certi versi rappresentò una spina nel fianco di Agnelli – fu il principale artefice della mobilitazione industriale, e creò un organismo tripartito con imprenditori, sindacati e rappresentanti dello Stato, ovvero la confederazione generale dell’Industria, che si è poi trasformata nell’attuale Confindustria. Perché nacque? Esattamente per la concertazione, che allora si chiamava corporativismo, prima che il termine acquisisse un’accezione negativa nel periodo fascista. L’idea predominante, nel primo dopoguerra, era creare un sistema che fu declinato in due modi: prima pluralisticamente e poi, con il fascismo, coercitivamente. Il modello ebbe tanto successo che pochi mesi dopo Ferraris fu nominato ministro dell’Industria nel governo Nitti. Insomma, simul stabunt simul cadunt: non si può scindere la storia intrecciata di Confindustria, sindacati e stato come organo di validazione degli orientamenti presi da questi soggetti.

Sta dicendo che un secolo dopo non è cambiato nulla?
Il sistema non è riformabile, su questo ha ragione Sergio Marchionne. Invitare la Camusso e Bonanni ha un significato ben preciso. Mi limito a ricordare un intervento su Lavoce.info di Innocenzo Cipolletta, che nel 2003 sosteneva a ragione come, prigioniere dei loro successi, le associazioni imprenditoriali e sindacali non risolvono i problemi per non perdere la loro ragione d’essere. La cosa più giusta da fare per Confindustria è estinguersi. La vita vera delle associazioni non sta a Roma ma sul territorio, come l’unione industriale di Torino, di Bergamo, di Brescia, che hanno una funzione precisa di creazione di piattaforme di sviluppo. Un esempio virtuoso che conosco da vicino è il Mesap, il distretto della meccatronica del Piemonte, che si è evoluto con una forte base locale e al contempo con una vocazione internazionale. Le associazioni imprenditoriali locali sono utili quando danno supporto legale, cercano e attraggono fondi europei, creano centri di ricerca in collaborazione con le università sviluppando il trasferimento tecnologico. Tutto il resto sono chiacchere e retorica. Un esempio? L’accordo di giugno 2011 sulla contrattazione di secondo livello, che giustamente Marchionne non considerò e fu vista come una rottura, ma secondo lei alla Volkswagen o alla Opel hanno un contratto nazionale decentrato?

Come attuarlo, questo passo indietro?
Andando via da Roma. Certo, il dialogo con i ministeri ci deve essere ma non sui principi quanto sulle questioni di merito e sulle singole specializzazioni territoriali da valorizzare. È chiaro che serve una capacità di interlocuzione ma lo strumento degli accordi quadro per attuarla ormai ha fatto il suo tempo, a Roma si può andare a discutere ma in un secondo momento, con un approccio tagliato su misura delle esigenze delle aziende sul territorio. Oltretutto così è possibile fare delle economie di scala.

C’è un tema più urgente di altri, visto dalla base della piramide e non dal vertice?
Direi la rilocalizzazione di quanti vogliono tornare a investire nel territorio. Su questo Confindustria non dice nulla. O meglio: presenta studi comparativi ma non accompagna la trasformazione del sistema industriale in questo senso. Ovviamente ciò non esclude il dialogo, necessario, con i sindacati.

Se Confindustria manca di idee e capacità d’influenza non è anche colpa degli imprenditori che non sono riusciti a votare dei degni rappresentanti?
Guardi, Giorgio Squinzi è un eccellente imprenditore e il suo lavoro in azienda merita il massimo rispetto. Tuttavia, se – come si legge in certi documenti – si vuole aumentare il peso della manifattura sul Pil portandolo dal 20 al 25% per far ripartire il Paese, ciò significa mettere al primo posto tutte quelle medie imprese dinamiche di cui Squinzi è stato uno degli esponenti principali, con l’obiettivo preciso e dichiarato di far crescere dei campioni irrobustendo la parte più dinamica del tessuto, che esiste ed emerge con chiarezza dalle ricerche periodiche di Mediobanca su dati Unioncamere. Con ciò voglio dire: smettiamola con le operazioni omnicomprensive, e partiamo da obiettivi concreti e immediatamente realizzabili.

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