Liberalizzazioni e spesa pubblica mirata per sostenere l’occupazione. Sintetizzando all’estremo, è questa la politica economica che ci si può aspettare dal premier Enrico Letta. Gli indizi sono tutti nella sua biografia. Da ministro dell’Industria, a cavallo del millennio, firmò l’omonimo decreto (164/2000) che ha aperto il mercato del gas, consentendo a soggetti diversi di proporre servizi di importazione, trasporto, dispacciamento e vendita. Obbligando, di fatto, i titolari di concessioni come Snam a dare l’accesso ai loro gasdotti ad altri concessionari o imprese del settore, e il cosiddetto unbundling, ovvero la separazione societaria e contabile delle imprese che costituiscono la filiera del gas. Unico neo, lo sviluppo delle fonti rinnovabili poi realizzato attraverso i certificati bianchi, titoli vidimati dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas che consentono di ottenere incentivi in base a interventi di efficientamento energetico. Un sistema che poi è degenerato dopo l’era Letta.
Per capire come le idee economiche del pupillo di Nino Andreatta, sostenitore ante litteram dell’ortodossia, siano più vicine al coté di Mario Monti che a quello di Pier Luigi Bersani, basta rileggersi un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel ’99, da giovane ministro (in quota Prodi) per le Politiche comunitarie nel governo d’Alema. Il tema è lo sviluppo della previdenza integrativa in Italia: «Le pensioni d’anzianità sono un’ingiustizia che continuerà a pesare sui conti in modo insopportabile. Nei primi sette mesi dell’anno altre centomila persone sono andate in pensione anticipata a spese della mia generazione. Se si accelerasse la scomparsa delle pensioni d’anzianità si risparmierebbe qualche migliaio di miliardi all’anno, utilizzabili per fare altri interventi di natura sociale, ma anche per tagliare i contributi a carico delle imprese». Per la cronaca, soltanto undici anni dopo il sistema è passato dal retributivo al contributivo.
L’attenzione al mondo della piccola e media impresa, su cui la sinistra, incentrata classicamente sulla contrattazione e sulla rappresentanza, non aveva mai posto l’accento, è un altro elemento che contraddistingue il premier incaricato. Nel libro “Viaggio nell’economia italiana”, scritto con Pier Luigi Bersani e pubblicato da Donzelli nel 2004, Letta dopo ottomila chilometri e venti tappe in altrettanti distretti individua soprattutto nell’aver scambiato la delocalizzazione per l’internazionalizzazione uno dei problemi che influenzano la competitività della piccola impresa, oltre al fisco e alla burocrazia. Problemi messi a fuoco una decina d’anni fa, ma che hanno portato a una riflessione – nel programma elettorale del Pd prima, e negli otto punti di Bersani poi – soltanto di recente.
Letta si è occupato anche di grande industria (e ha rapporti rodati con colossi come Eni, Enel e Finmeccanica). Nel 2008, da sottosegretario alla Presidenza del consiglio, ha gestito la delicata negoziazione sul destino di Alitalia con i francesi di Air France. La sua posizione, espressa nel corso di una riunione con le sigle sindacali nell’aprile di quell’anno, era netta: «Assumersi oggi responsabilità», spiegò all’epoca, «vuol dire comprendere che Air France è l’unica proposta sul tavolo, che la nostra compagnia di bandiera non può rimanere in piedi da sola, che, come certificato dal cda di Alitalia, la liquidità dell’azienda è in fase di esaurimento e che, come ricordato dal commissario europeo alla Concorrenza, l’immissione di nuovi fondi pubblici è impossibile». A questa posizione Letta arrivò dopo aver passato un anno in estenuanti tentativi di mediazione affinché l’azienda rimanesse pubblica, scontrandosi con un altro giovane prodiano, il sottosegetario all’Economia con delega alle partecipate Massimo Tononi, dal 2006 alla ricerca di un compratore. Tentativi che si scontrarono con la cordata messa in piedi da Berlusconi e da Corrado Passera, che oggi ha finito i soldi di nuovo.
In Europa Letta troverà un clima favorevole per negoziare lo sforamento del tetto del deficit al 3% del Pil. Come ha affermato il commissario agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, «Il rallentamento del consolidamento è possibile ora grazie agli sforzi fatti dai Paesi in difficoltà, dall’impegno Bce e dalle politiche di bilancio credibili». Un’apertura da sfruttare per rilanciare l’occupazione. D’altronde, in un’intervista di presentazione del libro “L’Europa è finita”, scritto con Lucio Caracciolo un paio d’anni fa – seguito ideale di “Euro sì, morire per Maastricht”, del 1997, a cui proprio Caracciolo rispose con “Euro no. Non morire per Maastricht” – Letta confessa che, tra Angela Merkel e l’allora inqulino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, avrebbe gettato dalla torre senza dubbio la prima. Eppure, proprio in “Euro sì”, Letta descrive il trattato di Maastricht come strumento «per una politica che abbia ancora l’ambizione di coniugare valori e prassi», sostenendo che il disavanzo di bilancio, in Eurozona, sia il frutto degli interessi sui debiti accumulati negli anni del «primato della politica». Posizioni da ortodosso che il diretto interessato ha ammesso di aver ammorbidito dopo aver visto le fiamme in piazza Syntagma. E non a caso ieri ha detto: «Serve un forte impegno in Europa, anche per cambiare quelle politiche troppo attente all’austerità che non sono più sufficienti».