Non c’è tregua per la Siria. In due giorni due attentati: lunedì quello che è quasi costato la vita al primo ministro di Bashar al-Asad Wael al-Halqi – uccidendo una sua guardia del corpo e almeno 5 passanti – in un quartiere residenziale della capitale, mentre nella giornata di martedì, ancora a Damasco, 13 persone sarebbero state uccise e 70 ferite in una esplosione nel centro cittadino nei pressi del ministero dell’Interno. Nessuna rivendicazione ufficiale è ancora giunta, ma è chiara la mano di gruppi che vogliono evitare ad ogni costo una soluzione politica del conflitto.
E mentre ogni esplosione nella capitale allontana sempre di più la possibilità di trattative fra regime e opposizione, la tragedia che è già costata la vita a oltre 70mila persone potrebbe complicarsi ulteriormente. Se da una parte sembra momentaneamente sospesa la possibilità di un intervento NATO (specialmente dopo che il segretario di stato John Kerry ha espresso i propri dubbi sulla veridicità delle informazioni trasmesse dal governo israeliano circa l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano), è però crescente il pericolo di una spaccatura nel fronte dei ribelli, mentre appare sempre più vicina l’eventualità di una estensione del conflitto anche ad alcuni paesi vicini.
Ad avvalorare la tesi di chi teme una rottura fra i gruppi principali che compongono il variegato fronte dell’opposizione al regime di Bahar al-Asad vi sono due avvenimenti recenti emersi in concomitanza dell’ultimo meeting degli “Amici della Siria” tenutosi a Istanbul. Il primo di questi eventi è stato l’annuncio della Fratellanza musulmana siriana – la branca siriana della Fratellanza musulmana internazionale, gruppo nato in Egitto nel 1928 e attivo in numerosi paesi arabi – di voler riaprire un ufficio operativo nei territori sotto il controllo dei ribelli.
L’azione segnerebbe il ritorno ufficiale della Fratellanza in territorio siriano dopo la sanguinosa repressione da essa subita nel 1982, anno in cui Hafez al-Asad (padre dell’attuale dittatore) bombardò per giorni la città di Hama per stroncare la ribellione sunnita condotta dai Fratelli. Da allora la Fratellanza ha condotto la propria lotta contro il regime dall’esilio, nel quale ha saputo costruire un notevole network di appoggi e amicizie con alcuni dei più influenti stati della regione, in primis Qatar e Turchia.
Il sostegno di amici così potenti ha permesso ai Fratelli musulmani siriani di dominare le principali organizzazioni dell’opposizione formatesi in seguito allo scoppio della ribellione contro il regime di Asad nel 2011. Al momento essa è di gran lunga la fazione più potente all’interno della Coalizione nazionale siriana (Cns), l’organizzazione nata in Qatar nel novembre 2012 e riconosciuta da molte nazioni, fra cui l’Italia, come l’unico rappresentante legittimo del popolo siriano. Questo potere non rispecchia però la situazione sul campo. All’interno del paese i gruppi armati che si ispirano alla Fratellanza sono una minoranza, di gran lunga inferiori dal punto di vista numerico e operativo ai gruppi salafiti guidati dal Fronte al-Nusra, gruppo nato da una costola delle organizzazioni jihadiste irachene e sostenuto in maniera non ufficiale soprattutto dall’Arabia Saudita. La volontà della Fratellanza di aprire nuove sedi nei territori liberati è un chiaro tentativo di recuperare il terreno perduto in termini di influenza sul campo, che certamente non sarà ben accolto dai gruppi salafiti.
A esacerbare ulteriormente la situazione si è aggiunto l’altro evento di questi ultimi giorni, ovvero l’annuncio da parte dell’Unione europea di voler alleggerire l’embargo sulle importazioni petrolifere siriane. Gran parte dei giacimenti del paese sono infatti ora sotto il controllo dei ribelli che potrebbero quindi ricominciare a vendere greggio per sostenere la lotta contro il regime. Pur non essendo mai stata la Siria un grande esportatore (380mila barili al giorno, un’inezia se comparati ai quasi 10 milioni dell’Arabia Saudita), gli introiti petroliferi rappresentano certamente una risorsa destinata a fare gola ai molti gruppi sul campo, e di conseguenza un possibile fattore scatenante di lotte intestine fra i gruppi dell’opposizione. La lotta di potere fra i salafiti e i Fratelli musulmani non è che il riflesso della competizione che si prolunga da anni all’interno del Gcc (Gulf Cooperation Council, l’organizzazione che comprende le monarchie arabe del Golfo persico) fra Arabia Saudita e Qatar, che ha trovato in Siria un terreno di battaglia ideale.
Ma le due monarchie arabe non sono gli unici stati della regione ad avere grosse poste in gioco in Siria. Il Libano sta di fatto conducendo una “guerra civile di prossimità” sul territorio siriano, dove ormai da mesi si affrontano militanti di Hezbollah – l’organizzazione sciita libanese alleata storica dell’Iran e di al-Asad – e dei gruppi salafiti libanesi – storicamente sostenuti dall’Arabia Saudita e facenti riferimento al movimento sunnita della famiglia Hariri Futuro. Con la crisi di governo in corso sono in molti che trattengono il respiro in attesa delle elezioni parlamentari di giugno, che si preannunciano molto tese e a cui il paese potrebbe arrivare in una situazione caotica e densa di dissidi settari.
Nel frattempo, la Giordania e, soprattutto, l’Iraq, sono gli altri due vicini che stanno rischiando di venire progressivamente assorbiti dalla spirale di violenza che si consuma in Siria. La Giordania ha autorizzato l’arrivo di circa 200 militari americani che avranno la missione di addestrare i gruppi di ribelli siriani che hanno trovato rifugio nella piccola monarchia hascemita. Il sovrano Abdullah II, dopo aver tentennato per alcuni mesi, sembra aver definitivamente preso posizione contro il regime di Asad, spaventato soprattutto da un prolungamento indefinito del conflitto e dalla conseguente possibilità di un’estensione della violenza dei gruppi salafiti verso Amman.
Ancora più complicata è la situazione irachena, dove i membri della minoranza sunnita, incoraggiati dalle imprese dei propri correligionari in Siria, dopo mesi di manifestazioni pacifiche si stanno dichiaratamente armando contro il governo a guida sciita Nouri al-Maliki. Dopo l’ammissione della leadership di al-Nusra dei propri legami ai gruppi jihadisti iracheni, appare sempre più evidente il collegamento fra gli avvenimenti siriani e quelli iracheni, e crescono i pericoli i che il governo di Baghdad dovrà gestire nei prossimi mesi se la violenza in Siria non dovesse cessare al più presto.