«Ha tradito uno su quattro. Questo è troppo, non lo accetto». Sono passate da poco le 22, Pier Luigi Bersani si sfoga davanti ai suoi parlamentari al Teatro Capranica. Qualcuno lo descrive furioso, qualcun altro profondamente amareggiato. «Abbiamo prodotto una vicenda di gravità assoluta, sono saltati meccanismi di responsabilità e solidarietà». Il segretario parla al partito, ormai frantumato in mille pezzi.
L’ultimo affronto è stata la bocciatura di Romano Prodi. Il Professore lo ha scelto lui, all’inizio della giornata. Una decisione estrema per salvare almeno l’unità del Pd (ieri la candidatura al Colle di Franco Marini aveva già evidenziato le prime crepe nel partito). Il lungo applauso, l’approvazione all’unanimità, ma al momento di votare in Aula si smarcano in un centinaio. Franchi tiratori. Semplicemente «traditori» per gli increduli dirigenti democrat. Un avversario invisibile a cui alla fine Bersani è costretto ad arrendersi. «Consegno all’assemblea le mie dimissioni. Saranno operative un minuto dopo l’elezione del presidente della Repubblica».
Il segretario resterà al suo posto fino al termine della complicata successione di Giorgio Napolitano, poi si farà da parte. Non poteva fare altrimenti. Il partito – quel che ne rimane – gli ha voltato le spalle. Perché la bocciatura di Romano Prodi non è il frutto di uno scontro tra correnti. Bersani non è stato sconfitto da renziani, dalemiani o chissà chi. I cento voti contrari, nascosti nel segreto dell’urna, sono molto peggio. Rappresentano un malessere trasversale, generalizzato. La logica conseguenza di un partito imploso, senza più una guida. «Forse un partito mai nato» si lamentano ormai in tanti.
Bersani se ne va. Lascia che la «ruota giri», come ha più volte annunciato ricorrendo all’ennesima, sfortunata, metafora. Un vezzo che era diventato quasi un tormentone. Dai tacchini sul tetto alle bambole da pettinare. E quel giaguaro da smacchiare mai smacchiato, che sembrava aver tolto al segretario la voglia di usare troppi giri di parole.
Bersani lascia in solitudine. D’altronde nel partito lo hanno spesso accusato proprio di questo. «Il segretario va avanti da solo», non coinvolge nessuno. Vuole gestire tutto nel chiuso dei suoi vertici, affiancato dai collaboratori più stretti: Miguel Gotor, Maurizio Migliavacca. Chissà se poi è vero. «Ormai è facile sparare su Bersani – riflette un parlamentare uscendo dal Capranica – Adesso gli daranno tutti addosso». Eppure non si possono ricordare gli ultimi mesi di Bersani alla guida del Pd senza pensare alla solitudine. Un distacco anche fisico tra il leader e il suo partito.
Un esempio. Quando dopo le elezioni Bersani propone in Direzione la sua strategia, non c’è nessuno a contraddirlo. Tutti uniti attorno al tentativo di dialogo con i grillini, all’intesa sul programma degli otto punti. Anche allora il partito si era espresso con un voto all’unanimità. Salvo poi criticare sottovoce la scelta del capo. Chi ha scordato le ironie sull’imbarazzante diretta streaming, con il segretario costretto a chiedere ai capigruppo Cinque Stelle i voti per un governo di cambiamento? «Mi sembra di stare a Ballarò» gli aveva risposto sfrontata la grillina Roberta Lombardi.
Una porta in faccia dopo l’altra, Bersani appronta una nuova strategia. Per il Quirinale si cerca un accordo con il Cavaliere. «Ce lo chiede la Costituzione, l’intesa sul nuovo presidente della Repubblica deve essere il più ampia possibile». E il segretario si trova solo. Ancora una volta. Davanti il sostegno ufficiale di tutto il partito, dietro i dubbi di quasi tutti. Risultato: al momento di eleggere Franco Marini al Colle, il partito si spacca.
Tornano alla mente le immagini del segretario che lascia Roma per tornare a Bettola, l’immancabile sigaro in mano. Sono i giorni delle consultazioni di Napolitano. Dopo un primo incontro con il presidente, al Quirinale la delegazione Pd viene guidata dal vicesegretario Enrico Letta. Oppure Bersani questa sera. Chiuso nel suo studio a Montecitorio al termine dell’incredibile quarto scrutinio. Al suo fianco solo un pugno di dirigenti: il vice Letta, Anna Finocchiaro, Roberto Speranza. A pochi metri di distanza, in Transatlantico, parecchi parlamentari già chiedono le dimissioni del leader. Una richiesta insistente, diffusa, ma a bassa voce. Perché nonostante i tanti nemici interni, in questi mesi l’unico ad aver sfidato apertamente il leader è stato Matteo Renzi.
Adesso è facile elencare degli errori di Bersani. Quella campagna elettorale giocata tutta in difesa. Convinto di poter raggiungere Palazzo Chigi senza troppi sforzi, grazie al successo delle primarie. Forse il vero sbaglio è stato proprio quello. La sfida al sindaco rottamatore non ha lanciato il Pd nei sondaggi. Lo ha spaccato. In quel lungo confronto con Renzi si è aperta una ferita che non si è più rimarginata. Nel gruppo dirigente e nell’elettorato.
Ora Bersani si dimette. Lascia dopo essere stato accusato – dentro e fuori il Pd – di aver anteposto le sue ambizioni alle necessità del Paese. Gli hanno rimproverato di essere testardo e ostinato. Di essere pronto a tutto pur di salire a Palazzo Chigi. Proprio lui che dopo il deludente risultato elettorale aveva assicurato che non avrebbe «abbandonato la nave», specificando di essere pronto a restare a bordo «da capitano, ma anche da mozzo». Due mesi e un centinaio di traditori dopo, Bersani ha deciso di sbarcare.