MILANO – All’inizio fu un trauma. Il trauma della noia accademica. Racconta Robert Wilson a SkyArte che al suo primo viaggio in Grecia, da giovane, fu portato a vedere un’edizione teatrale dell’Odissea. Non gli piacque per niente: «Non ricordo quanto sia durata veramente, ma mi sembrò interminabile, pesantissima, seriosa». Per Wilson, il poema omerico poteva essere molto più lieve. Non sappiamo quanti decenni siano passati da allora, e per quanto tempo Wilson abbia pensato a una riduzione del mito di Ulisse per il palcoscenico. Ma l’ispirazione da allora non è cambiata. L’Odissea firmata da Wilson, da oggi (e fino al 24 aprile) in scena al Piccolo Teatro di Milano, è lieve, lievissima. Praticamente pop. Forse anche troppo, in alcuni tratti. Un gioco da ragazzi, nei voleri del regista: quasi una trasformazione da mito a favola, complice la riduzione radiofonica del poema scritta da Simon Armitage, poeta inglese, su cui Wilson ha basato la regia. Eppure, nonostante tagli, riscritture e variazioni di vario genere, la forza delle storie di Omero rimane intatta, anche nelle mani di un avanguardista come Wilson.
La “Odissey” di Wilson non parte direttamente da quella di Omero. Alla base c’è il lavoro di un poeta contemporaneo, Simon Armitage. Una drammatizzazione commissionata dalla Bbc e trasmessa in radio nel 2004. Il testo era quindi in inglese. È tornato in greco, ma contemporaneo, perché la produzione è del Teatro Nazionale di Grecia, in associazione con il Piccolo (dove si segue con i sovratitoli). L’azione è articolata in 26 scene. Dall’isola di Calipso si arriva a Itaca, passando per la terra dei Feaci e il ricordo di ciclopi, sirene, maghe, maremoti, viaggi nel regno dei morti.
Sono stati tagliati i canti sui viaggi di Telemaco alla ricerca del padre (sempre i primi a saltare, quando si adatta l’Odissea) e innumerevoli altre parti sono state sintetizzate in dialoghi, eliminando le descrizioni, mentre hanno un posto centrale il flashback del protagonista – tante scene sono in realtà ricordi di Ulisse raccontate a Nausicaa e ai suoi genitori. Un lavoro di sceneggiatura, da cui Armitage ha fatto emergere una storia d’avventura. Che quando prende vita sul palco, complici le soluzioni visive di Wilson, può persino ricordare un film. Con un protagonista scaltro quanto si deve, affascinante per le donne (due su tutte: Circe nel primo atto, Penelope nel secondo), che riesce a superare ogni guaio per arrivare alla battaglia finale in casa sua e ritrovare l’amore abbandonato vent’anni prima. Se pure questa trama fosse soltanto l’ossatura del testo omerico, ce n’è comunque abbastanza per tenervi circa tre ore e mezza incollati alla sedia del teatro.
A Wilson il tratto avventuroso dev’essere piaciuto: cercava levità, e chi ha mai considerato pesante l’avventura? In più, va considerata la componente ironica, presente nei versi di Armitage ma a cui il regista ha certo aggiunto del suo. Potremmo scherzare noi e citare, a proposito di “Odyssey”, qualche cartone animato cult. Sì, perché a chi è cresciuto negli anni Ottanta gli dei svagati di Bob Wilson ricordano quelli di Pollon. E la spada di Ulisse, luccicante di plastica, somiglia non poco a quella di He-Man. Per non parlare del mostro Scilla, un giocattolone completo di lucine intermittenti come non si trovano più neanche nelle fiere di paese. O della corazza di Ulisse, con gli addominali modellati, dopo “300” inaccettabile finanche a Carnevale. E lasciamo stare il faccione (poco) animato di Polifemo, più un cicciobello in versione freak che un ciclope.
In fondo, Wilson non dovrebbe offendersi più di tanto se questi particolari risvegliano una componente infantile in qualche spettatore. Il fatto è che di ironia ce n’è tanta, a vari livelli. Appare Tiresia e, da cieco tipico, indossa occhiali da sole. Ma a quel punto non era meglio incontrarlo per strada a New York, come accade in La dea dell’amore di Woody Allen, piuttosto che nell’Ade? Inoltre, non pochi passaggi musicali di pianoforte (eseguiti dal vivo) ricordano le colonne sonore delle comiche del cinema muto. Gli dei non emanano alcuna solennità, e se vogliono si concedono qualche passo di danza con gli umani, trasformando scenari mitologici in sale da ballo. In tanti momenti gli attori, con le facce dipinte di bianco (un trucco che sulle donne, più che ricordare la Grecia, potrebbe ricordare il Giappone), si muovono come mimi e ballerini, e certi suoni di scena fanno pensare che potrebbero essere mossi da un carillon. Euméo, guardiano dei porci di Ulisse, preferisce esprimersi quasi sempre a tempo di swing.
Ma il senso di tante mosse sarà capito da tutto il pubblico? O si dovrà lavorare di fantasia? Il dubbio rimane. E appresso ai dubbi, l’epica si sgretola. Se Robert Wilson voleva smitizzare Ulisse, qualche colpo l’ha messo a segno. Ma perché? Resta un altro dubbio: che il regista ce l’avesse, più che con la tradizione mitologica antica, con la sua versione settecentesca e ottocentesca, quella dei marmi bianchi in esaltazione della magniloquenza dell’arte classica. Wilson ha preferito rifarsi direttamente alla luce azzurrina che ricordava di aver visto in Grecia. La scena è squadrata, le assi di palco e pareti sono bianche, lo sfondo di colore tenue e sfumato, che diventa netto nei momenti più drammatici. I personaggi hanno costumi bianchi o di colori vivaci. Il quadro d’insieme è forse più accattivante nei momenti in cui attori sono fermi: la loro fissità restituisce alla scena la qualità di una installazione. Funziona anche in modo cinematografico: ad esempio nella parte finale, quando Ulisse, travestito da mendicante, parla con i Proci per capire che tipi sono, e ognuno di loro – a turno – si immobilizza in un fermo immagine.
Nella nota biografica di Wilson distribuita dal Piccolo si ricorda – in modo un po’ ampolloso – che il suo lavoro teatrale «è ugualmente radicato nell’universo delle Belle Arti»: basta guardare qualche foto di scena di “Odyssey” per capire che è vero. Tra pochi giorni aprirà il Salone del Mobile: scenografie e costumi di “Odissey” potrebbero trovare posto anche lì. Forse lo spettacolo di Wilson è (anche) un evento del Fuorisalone, e nessuno ci ha ancora avvertiti.