E se Fiat diventasse la padrona del Corriere?

Editoria e salotto buono

La famiglia Agnelli-Elkann azionista di riferimento della Stampa e del Corriere della Sera. L’ipotesi, che circola in ambienti finanziari, non è così peregrina. Niente fusione in vista tra i due giornali, come paventato nei mesi scorsi, ma il medesimo proprietario, una volta chiuso l’aumento di capitale attraverso la sottoscrizione dell’inoptato. Sarebbe questa possibilità, secondo quanto si apprende, il motivo scatenante della lettera recapitata ieri al consiglio d’amministrazione da Diego Della Valle, secondo azionista privato all’8,6% dell’editore del quotidiano di via Solferino.

Una missiva nella quale il patron di Tod’s ha sollevato riserve proprio sulle modalità dell’aumento di capitale, fortemente diluitivo, minacciando un’azione di responsabilità nei confronti di Mediobanca e Intesa. Tant’è che è oggi, proprio grazie a Fiat e Intesa Sanpaolo, l’adesione del patto all’aumento di capitale ha raggiunto la soglia del 50%, dal 44% di cui dava conto ieri notte la nota ufficiale della società al termine del consiglio d’amministrazione. Il che significa un peso ulteriore del 6% complessivo per la casa automobilistica e l’istituto di credito, il cui principale azionista è la torinese Compagnia di San Paolo, presieduta dall’ex sindaco della città Sergio Chiamparino. Ironia della sorte, la partita per il controllo dello storico giornale della borghesia milanese sembra si stia dunque giocando sotto la Mole. Come ai mitici tempi dell’Avvocato.

Incassate le dimissioni del numero uno di Unicredit, Giuseppe Vita, e di Paolo Merloni, presidente di Ariston Thermo, oggi l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane ha presentato i risultati e il piano industriale agli analisti. Nel 2012 Rcs ha perso mezzo miliardo di euro – con svalutazioni per 435 milioni sui 349,2 milioni del 2011– i ricavi sono scesi da 1,8 a 1,6 miliardi, mentre il margine lordo pre oneri e proventi non ricorrenti più che dimezzato a 61 milioni rispetto ai 163,4 del 2011, e debiti per 846 milioni di euro. Per invertire il trend si punta su quattro leve: dismissione del complesso immobiliare di via San Marco, vendita della controllata Dada (novità in arrivo a fine mese), riduzione dei costi e sviluppo del digitale. «Ciò che accelererà i ricavi e il margine operativo lordo nel digitale viene dall’essere presenti in modo significativo sui tablet, in qualsiasi forma, e sul mobile. Faremo evolvere a passo spedito le nostre edizioni digitali in Italia, Spagna e America Latina per moltiplicare per tre il numero di abbonati entro la fine del periodo di piano», ha spiegato Jovane nel corso della conference call, mentre il direttore finanziario Riccardo Taranto ha confermato l’obiettivo di dismissioni per 250 milioni entro l’anno. Per il top management il digitale dovrà generare il 21% dei ricavi (100 milioni) e il 20% della pubblicità del gruppo entro il 2015. 

Certo è che, a livello industriale, il gruppo sconta non soltanto l’acquisizione del gruppo iberico Recoletos, per 1,1 miliardi di euro nel 2007. Ma anche qualche occasione persa, come la vendita di Rcs Periodici allo stampatore Farina nel 2011, interessamento rispedito al mittente perché l’offerente era considerato vicino al faccendiere Bisignani, e – un paio di anni prima – la mancata fusione di Rcs Libri con Feltrinelli, sponsorizzata dall’allora ad di Intesa, Corrado Passera, e osteggiata invece dall’ex presidente di Piazzetta Cuccia, Cesare Geronzi. Oggi Rcs si ritrova con una situazione paradossale: le vendite collaterali e gli instant book a marchio Corriere e Gazzetta fatturano quanto una casa editrice come Einaudi (circa 40 milioni), e cannibalizzano la società editrice vera e propria. Un’altra questione sul tavolo di Pietro Scott Jovane. 

Dal punto di vista finanziario, Taranto ha detto oggi agli analisti che il 91% dell’aumento di capitale sarebbe garantito dal consorzio composto da Banca Imi, Centrobanca, Bnp-Paribas, Mediobanca e Banca Akros, che si sono impegnati a dare garanzia per 166 milioni, così come il rifinanziamento da 575 milioni, di cui si faranno carico sempre gli stessi, ovvero Ubi, Unicredit, Bnp-Paribas, Bpm e Piazzetta Cuccia. Stavolta, però, a condizioni decisamente peggiorative (600 punti base di spread). 

Lo sbilanciamento dell’aumento di capitale nei confronti delle banche creditrici – oltre all’iniziale volontà di mantenere la sede in via Solferino – sarebbe il motivo dietro alle dimissioni del presidente di Ariston Thermo dal cda. Paolo Merloni si sarebbe lamentato anche del troppo tempo perso dai soci sulla questione dello scioglimento del patto, dato per probabile a luglio, una volta chiuso l’aumento di capitale, invece che sulla disamina del piano industriale, soprattutto sul fronte riduzione del personale. Un disagio, quello di Merloni, nato anche dall’impossibilità di esperire altre strade sulla riduzione del debito, come il concordato in continuità, più favorevoli agli azionisti. Insomma, a queste condizioni, meglio cogliere la palla al balzo e uscire dalla partita. Sempre lato imprenditori, da notare che, dopo il niet dei Benetton, sulla decisione di aderire o meno all’aumento di capitale si starebbe consumando un confronto generazionale nella famiglia Pesenti – Italmobiliare è azionista al 7% – tra il padre Giampietro e il figlio Carlo, il quale, secondo quanto trapela, non sarebbe intenzionato a portare avanti l’operazione straordinaria. 

Nel frattempo, si cerca il cavaliere bianco. C’è chi dice il fantomatico socio industriale sia la casa editrice tedesca Axel Springer – che nega – mentre perde quota l’ipotesi Investindustrial, la società del presidente di Bpm, Andrea Bonomi, impegnato nelle complesse trattative per la trasformazione della banca milanese in società cooperativa. Appuntamento al prossimo cda, previsto a fine mese, per maggiori dettagli sulla rivoluzione di via Solferino. Da cui potrebbero uscire rafforzati proprio gli Agnelli. Un ritorno al passato.

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