«Sai che cosa siamo noi?». «No, dimmelo tu». «Noi siamo gli artefici di tutto questo, di tutto quello che vedi: noi siamo degli dei». «Ridillo». «Noi svolgiamo il ruolo di Dio. Non dimenticarlo mai».
Lloyd Blankfein non è un banchiere normale. La sua non è una banca normale. Lui è a capo della regina di Wall Street. Forse non sarà la banca più grande in assoluto. Forse non sarà quella con la storia più prestigiosa. Ma qualsiasi persona che pensa all’universo bancario mondiale non può che pensare a Goldman Sachs. Blankfein è il capo degli “uomini d’oro” della finanza globale e allo stesso tempo è colui che deve portali lontano dalla fragilità di cui è vittima l’istituto bancario, che deve traghettarli lontano dalle acque pericolose. Le stesse acque che sono diventate la croce e la delizia di Goldman Sachs e in cui solo i più forti possono navigare.
“Tutti per uno, uno per tutti”, scriveva Alexandre Dumas padre. Il motto dei Quattro moschettieri si adatta alla perfezione a quello che è Goldman Sachs. «Prima che un’istituto di credito è una famiglia, un clan, un branco. Chiunque ci entri sa che nulla sarà mai più come prima», dice a Linkiesta Marc, giovane trader francese che lavora nella divisione Fixed income di Londra. Parole che ricordano quelle dette nel novembre 2011 da Kevin Kennedy, il direttore della divisione Risorse umane: «Una persona che diventa uno degli uomini Goldman è una persona diversa, dato che sa può contare su una famiglia a livello internazionale». Ed è vero.
Scelti nelle migliori business school internazionali, gli “uomini d’oro” forse non sono quelli più bravi del circondario. Il primato, secondo molti osservatori dei mercati finanziari e delle loro dinamiche, spetta ai ragazzi di Morgan Stanley. Ma c’è un primato che i dipendenti di Goldman Sachs hanno su tutti gli altri: la capacità di fare rete, di essere e sentirsi una famiglia. Questa è una delle principali ragioni del successo di questa banca, che è diventata l’emblema di una crisi, la peggiore dell’ultimo secolo. «È come se a Goldman Sachs abbiano imparato a memoria tre film, “Wall Street”, “American Psycho” e “Boiler Room”, e li abbiano trasportati nella pratica», ha scritto Tyler Cowen, professore di Economia alla George Mason University. Le ragioni sono facili da intuire.
Giovani ipervitaminizzati e affamati di soldi, bella vita e potere sono stati utilizzati per far crescere la banca a più non posso. Il risultato finale è un colosso dalle fondamenta precarie, proprio come J.P. Morgan. Se la banca di Jamie Dimon è quella più sistemicamente rilevante, quella di Gary Cohn e Lloyd Blankfein è quella con più allure. Non solo. Goldman Sachs è la banca più influente a livello politico. Come ha scritto nel 2008 il Nobel per l’Economia Paul Krugman «quella non è una banca, è l’anticamera per un posto di primo livello in politica».
Gli esempi, del resto, si sprecano. Da Mario Draghi, numero uno della Banca centrale europea, a Mario Monti, attuale presidente del Consiglio, passando per innumerevoli segretari del Tesoro statunitense e capi di governo in altri Paesi, la rete di Goldman Sachs è tanto estesa quanto radicata nella società. Colpa, forse, della mentalità che ha sempre avuto la banca, che ha spinto sulla ricerca dell’eccellenza fin da quando, nel secolo scorso, creò il Block trading, l’anticamera della negoziazione over-the-counter. O come quando introdusse nuovi sistemi di scambi, nuove piattaforme, nuovi modelli econometrici, nuovi paradigmi. Tuttavia, tutto ha un limite. Anche i sogni. E il sogno di Blankfein, quello di fare di Goldman Sachs la più importante banca del mondo, non sarà raggiunto.
La crisi subprime ha colpito nel cuore Goldman Sachs. I mutui a rischio insolvenza che erano in pancia alle banche commerciali sono stati presi, impacchettati nelle Collateralized debt obligation (Cdo) e rivenduti sui mercati internazionali come se nulla fosse. Alto rischio, alto rendimento. Tutto bene, fino a quando il gioco è durato. Poi tutto si è rotto. Il castello di carte su cui era basata buona parte del business di Goldman Sachs è caduto sotto i colpi dei subprime e del Dodd–Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, la riforma finanziaria statunitense introdotta nel 2010. «Nessuno la voleva – dice Marc a Linkiesta – e la lotta dei lobbisti è stata intensa, alla fine però ha vinto Washington, anche se di poco». Infatti una delle mosse più controverse del Dodd-Frank Act, ovvero la Volcker Rule che vieta il proprietary trading (la negoziazione in conto proprio, ndr) è stata facilmente aggirata dalla Multi-Strategy Investing (MSI) di Goldman Sachs, guidata da Daniel Oneglia e Geoff Adamson. Forti le critiche del Congresso, poche modifiche finali allo Special Situations Group (SSG), il cuore delle attività più rischiose (e quindi più remunerative) della banca, all’interno del quale fa parte il team di MSI. Risultato? Nonostante le controversie, il capo di Goldman è ancora al suo posto.
La storia di Lloyd Blankfein è uno degli esempi del sogno americano. Figlio di un postino e di una receptionist, il piccolo Lloyd fa di tutto per diventare un pezzo da novanta. Studia ad Harvard e contribuisce alla retta facendo i lavori più disparati. È di origini umili, lo sa e non lo nasconde. Anzi, come dirà un giorno Jamie Dimon, numero uno di J.P. Morgan, Blankfein è un miracolato. «Nessuno fa strada così velocemente senza vendere l’anima al diavolo», dice Dimon. Invidia? Forse sì.
Per Blankfein, ma soprattutto per Goldman Sachs, le grane sono state tante. Troppe. Si inizia con quella più grossa, ovvero Abacus 2007-AC1. In mezzo ci finisce Fabrice “Fabulous Fab” Tourre, un giovanotto francese che se non fosse stato per Abacus 2007-AC1 sarebbe passato alla storia per le sue avventure galanti. Invece no. “Fabulous Fab” era il gestore di Abacus, creato appositamente su indicazione di John Paulson, fondatore dell’omonimo hedge fund. Obiettivo? Shortare con estrema aggressività l’intero Abacus. Peccato che poi se ne accorse la Securities and exchange commission (Sec), l’organo di vigilanza finanziaria statunitense. La storia finirà con un patteggiamento che sa di beffa: 550 milioni di dollari. E poi altri patteggiamenti, altre presunte frodi ai danni dei consumatori. Infine il caso ellenico.
Goldman Sachs ha aiutato la Grecia a rendere più leggero i propri conti pubblici. In altre parole, mistificarli. «Difficile biasimare la banca, e i suoi dipendenti, per quello che è successo», dice un funzionario della Commissione europea a Linkiesta. «Loro hanno risposto a una domanda e hanno fatto il loro lavoro, l’input è partito dal governo ellenico e Goldman Sachs pare gli abbia fatto l’offerta migliore», dice. Tanto è bastato, tuttavia, per riportare la banca di Cohn e Blankfein agli onori delle cronache. «Sono degli squali senza scrupoli», scrisse Libération nei giorni neri di Atene. Facile attaccare, difficile capire in che modo l’intero universo finanziario sta mutando.
Al giorno d’oggi la spinta riformatrice non si è fermata. Da un lato Main Street. I cittadini, i dipendenti statali, i muratori, gli idraulici, gli insegnanti, la maggior parte della gente comune. In altre parole, il 99% degli Usa. Dall’altro, l’1 per cento, Wall Street. Gli eccessi, gli estremi, il lusso, i jet privati, i maxi bonus, le donne. Due mondi che solo in pochissimi casi si possono incontrare. Due mondi che difficilmente possono convivere. Due mondi che però si sono incrociati in diverse occasioni dal 2007 a oggi, da quando è scoppiata la bolla del mercato immobiliare statunitense, drogato dal credito facile di Alan Greenspan, dal 1987 al 2006 a capo della Federal Reserve, e galvanizzato da quei mutui, i subprime, concessi a chiunque. L’obiettivo era quello di permettere a tutti i cittadini americani, e non solo, di poter avere un’abitazione di proprietà. «È parte del sogno americano e noi lo possiamo esaudire», disse nel corso del 2004 Frank E. Nothaft, vicepresidente di Freddie Mac, una delle due agenzie paragovernative statunitensi che curano il mercato dei mutui. La realtà è stata però ben diversa del sogno. E il collasso, o forse bisognerebbe dire l’implosione, dell’universo immobiliare americano ha avuto un impatto spaventoso anche su Goldman Sachs.
La West Point della finanza a stelle e strisce creata da Marcus Goldman e Samuel Sachs ha iniziato a soffrire. Il calo della profittabilità dei mutui, ma soprattutto dei prodotti finanziari collegati, ha fatto declinare il modello di business che la regina di Wall Street aveva introdotto. Trading avanzato sui Cdo, sulle Asset-backed securities, su Collateralized loan obligation, su qualsiasi strumento fosse negoziabile. Troppi i rischi, troppa la vigilanza senza scrupoli. Come dice a Linkiesta un trader della divisione Credit Derivatives «il problema non è la regolamentazione, ma la voglia di rivalsa politica che sta dietro alle decisioni della Casa Bianca e del Congresso». In altre parole, per dimostrare a Main Street che la sua nemesi, quella Wall Street senza pudore e senza etica che ha creato la crisi, è corrotta e deve essere punita, i politici americani stanno facendo di tutto. Gli effetti sono però opposti a quelli voluti.
La grande crisi ha colpito anche Goldman Sachs. La migrazione silenziosa da New York all’Asia sta continuando, cercando di minimizzare gli effetti del riequilibrio globale dell’economia. Il deleveraging sta proseguendo. Non è più possibile continuare con lo stesso modello di business che si è sempre portato avanti dagli anni Ottanta a oggi. Il trading sempre più spinto è finito. Ne è consapevole anche Blankfein che, durante l’ultimo World Economic Forum di Davos, ha pubblicamente ammesso che sono stati fatti diversi errori nella gestione delle attività da parte della banca. Allo stesso tempo ha però sottolineato come non sia possibile convertire un gigante come Goldman Sachs (e il riferimento vale per tutte le altre grandi banche mondiali) nell’arco di uno o due anni. Occorrono decenni prima di un cambio radicale come quello che serve. L’economia mondiale sta mutando, le banche idem.
Il futuro di Goldman Sachs, per stessa ammissione dei vertici, è destinato a diventare ancora più eterogeneo. La ricerca delle opportunità più disparate in giro per il globo, uno dei capisaldi della banca, sarà aumentata. Sarà continuata quindi la tradizione introdotta da Jim O’Neill, capo di Goldman Sachs Asset Management, e ideatore dell’acronimo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) nel lontano 2001. Nuove frontiere, nuovi orizzonti. Ma anche nuovi rischi, nuovi azzardi e nuovi squilibri. È questo ciò che attende la regina fragile di Wall Street. Blankfein è sicuro che la fortuna non mancherà a Goldman Sachs. Ma come scrisse Publilio Siro nel primo secolo avanti Cristo, «fortuna vitrea est; tum cum splendet, frangitur». Tradotto: la fortuna è come il vetro, così come può splendere, così può frangersi.