Lo Stato italiano prevede che chiunque sia stato condannato, trascorso un certo tempo dalla fine della pena (dai 3 ai 10 anni) e in caso di buona condotta, possa essere “riabilitato”: le pene accessorie cessano e, in particolare, si cancella la menzione del reato dal casellario giudiziale. La ragione è evidente: a tutti (o quasi) deve essere data la possibilità di migliorare, di ricominciare una nuova vita senza essere inchiodati per sempre agli errori del passato. Sfortunatamente nell’epoca di internet questa accortezza della legge rischia di essere totalmente inutile.
Quale datore di lavoro, per esempio, dovendo decidere se assumere qualcuno va a controllare il casellario giudiziale? Tutti fanno una ricerca sul web. E proprio il web, spesso associato alle idee di libertà e democrazia, rischia di essere il carnefice di un diritto di tutti, di una garanzia per l’individuo e per la società: il diritto all’oblio. Il diritto cioè di chi è stato condannato, ed ha espiato la sua pena, che gli effetti “sociali” di questa abbiano un termine e non perseguitino una persona per tutta la vita.
Ma la situazione è ancora più grave di così. Non solo su internet chi è colpevole resta colpevole per sempre, perché le notizie relative al suo caso rimangono archiviate e raggiungibili in eterno, ma anche chi è stato solamente indagato e poi assolto rischia di vedere il proprio nome associato a crimini e criminali. Addirittura l’immagine di una persona può essere distrutta senza alcun procedimento giurisdizionale, per via di errori di gioventù che finiscono sui social network e non spariscono mai. O, il caso peggiore, per via di calunnie che da “venticelli” diventano uragani e rimangono per sempre memorizzate nei database del web.
Per rimediare, tra le altre cose, a questa situazione l’Unione europea sta predisponendo un nuovo regolamento in materia di privacy, che sostituisca la precedente direttiva 46 del 1995. Pochi giorni fa la commissione Affari Legali del Parlamento europeo ha approvato la bozza, ma l’iter è ancora lungo. Tra le proposte presenti per ora spicca la possibilità per gli utenti di chiedere, e ottenere, la distruzione da parte delle compagnie (come negozi on-line o social network) dei dati in loro possesso: chi vuole sparire, o ricominciare da zero, deve poterlo fare.
«La situazione è molto complicata e il regolamento rischia di nascere già obsoleto», spiega l’avvocato Raffaele Zallone, esperto di privacy e di protezione dei dati. «I principi sono anche giusti, ma le norme di attuazione non tengono conto della costante evoluzione del web. Come dicono gli americani “stiamo costruendo una diga nell’oceano”. Faccio un esempio: ho seguito il caso di una signora che è stata arrestata nel corso di indagini per una truffa. È stata assolta in tutti e tre i gradi con formula piena. Quando abbiamo ottenuto dai quotidiani on line, non senza fatica, che distruggessero gli articoli di archivio che la menzionavano, è rimasto il problema che quelle stesse informazioni continuava a fornirle Google, che conservava i pezzi nella cache. Ottenuto che anche Google li rimuovesse adesso c’è un nuovo problema: grazie all’applicazione “google complete” se si digita il nome della signora Google suggerisce come altre parole “truffa”, “truffatrice” etc. E, giusto pochi giorni fa, il Tribunale di Milano in una causa simile ha stabilito che a norma di legge non è colpa di Google. Perché “google complete” è solo un algoritmo. La decisione sotto questo aspetto è assurda, ma in generale mancano leggi adeguate in materia. Se si inseguono i dettagli si rimane sempre indietro ed è sempre più difficile ottenere giustizia. Servono dei “paletti” validi ora come per il futuro».
«Anche l’obbligo per social network e simili – prosegue l’avvocato Zallone – di distruggere certi dati su richiesta degli utenti rischia di non funzionare, perché le compagnie potrebbero comunque rispondere di aver ottenuto il consenso ad utilizzarli. La vera questione che andrebbe risolta, e che il regolamento non tocca, è “di chi sono” quei dati: miei o del social network? La mia idea è che i dati personali andrebbero assimilati alla proprietà intellettuale, che è roba mia e che si può usare solo con il mio consenso. Oltretutto mentre la proprietà intellettuale riguarda informazioni secondarie, in quanto derivate dal lavoro di una o più persone (e non è detto che tutti scrivano un libro o compongano una canzone), i dati personali sono informazioni primarie, esistono in quanto diretta conseguenza del fatto che le persone esistono e basta. A maggior ragione andrebbero tutelati».
«Il regolamento quindi va migliorato, però potrebbe comunque avere degli effetti positivi. Innanzitutto, a differenza della direttiva, impone una normativa unica per tutti gli Stati europei, e questo è importante per l’uniformità. Noi italiani in particolar modo abbiamo da guadagnarne, perché abbiamo recepito la precedente direttiva in modo anomalo, conservando una serie di storture del diritto. Poi tra le altre misure ne impone una di assoluto buonsenso: l’obbligo di notifica di una violazione di dati personali (per esempio, un furto di dati) alle autorità e ai diretti interessati – oggi previsto solo per i fornitori di servizi di comunicazione – sarà esteso a tutti i Titolari. In questo modo si aumenta la trasparenza del sistema, si proteggono maggiormente i cittadini e – conclude l’avvocato Zallone – si impone una maggiore attenzione alla tutela dei dati da parte delle società (specialmente banche e istituti finanziari), mettendole in concorrenza tra loro anche sotto questo aspetto».
Viste le spaccature tra Stati – in particolare Germania e Inghilterra sembra non vogliano rinunciare al proprio potere in materia – il cammino del regolamento sarà lungo e accidentato. A fine maggio sarà il turno della commissione parlamentare sulle Libertà Civili a doversi esprimere. I tempi lunghi potrebbero però essere un’occasione per migliorare l’adattabilità delle leggi all’evoluzione della tecnologia (un problema che si somma alla diffusa incompetenza dei giudici nelle materie cibernetiche). È nell’interesse di tutti i cittadini che al web vengano imposte alcune regole da cui non possa svicolare, magari solo grazie a una nuova “app”. Non per svilire il suo ruolo di liberatore rivoluzionario, ma per contrastarne la degenerazione in aguzzino con il “marchio dell’infamia” sempre caldo tra le mani.