«Kosovo è la parola più costosa nell’intera lingua serba», scriveva Matija Bekovi alla fine degli anni Ottanta, quando la questione della provincia di Kosovo-Metohija cominciava a guadagnare importanza nel dibattito pubblico in Jugoslavia e diventava centrale nell’ascesa politica di Slobodan Miloševic.
Sottoscriveranno, forse, questa frase coloro che hanno cercato in questi mesi di far sedere allo stesso tavolo negoziale Serbia e Kosovo, per cercare un dialogo che potesse contribuire a normalizzare i rapporti tra i due Paesi. In primis l’Unione europea e il suo alto rappresentante per la politica estera, Catherine Ashton.
I colloqui parevano a un punto di stallo: a inizio aprile sembrava che Belgrado non fosse più disposta a cooperare. Il nodo da sciogliere era sempre lo stesso: lo status di quelle municipalità nel settentrione del Kosovo, quattro in tutto, dove la maggioranza della popolazione (a differenza del resto del Paese, dove in prevalenza vivono Albanesi) è serba, che si sono sempre strenuamente opposte a ogni tentativo di Priština di rafforzare la propria autorità. La priorità, per lo meno quella politicamente dichiarata, era per Belgrado tutelare la loro posizione ed evitare che si trovassero in uno Stato dominato dall’etnia albanese.
Un accordo storico. L’impasse è stata superata venerdì scorso. Belgrado è riuscita a ottenere, per il Nord del Kosovo, il riconoscimento di alcuni punti essenziali alla propria autonomia: il diritto a formare un’unione di comuni serbi, con una propria polizia, i cui capi verrebbero nominati attraverso candidature da presentare, per l’approvazione, a Priština.
Qualcuno ha parlato a questo proposito di «una Republika Srpska» di Kosovo, riferendosi all’entità serba creata in Bosnia Erzegovina dopo la guerra, ma il paragone – tutto sommato – è forzato, perché l’architettura istituzionale del Kosovo nulla avrebbe da spartire con il carrozzone messo in piedi attraverso gli accordi di pace di Dayton. Se il secondo infatti prevede un delicato equilibrio tra entità dotate di enormi poteri amministrativi e la pari dignità delle «tre nazioni costituenti», nel caso del Kosovo si parlerebbe piuttosto di un’autonomia concessa nell’ambito di uno Stato centralizzato dai poteri ben definiti: i Serbi del nord dovranno obbedire a Priština, non più a Belgrado.
L’accordo firmato a Bruxelles è un documento che permette a tutte le tre parti in causa di «salvare la faccia». Belgrado può dire di non avere abbandonato i propri concittadini del Kosovo e di aver loro garantito il massimo di autonomia che fosse lecito aspettarsi, viste le condizioni sul terreno. Il premier kosovaro Thaçi ha incassato la firma della Serbia in calce a un documento che sembra l’anticamera naturale del tanto atteso riconoscimento. Per l’Unione Europea, aver mediato tra due agguerriti rivali è un’ottima occasione per rinforzare la propria immagine di «forza stabilizzatrice» nella regione. Inoltre, Bruxelles può dimostrare una volta di più la validità del proprio progetto: in un momento in cui l’UE è sommersa di critiche e di scetticismo, esistono nazioni disposte a rinunciare alla propria integrità territoriale pur di farne parte.
Una data d’inizio per i negoziati era la condizione richiesta da Belgrado per accettare l’accordo con Priština. Una volta firmato, è giunta puntualissima la raccomandazione della Commissione affinché «possano avere inizio i negoziati per l’ingresso nell’Unione della Serbia, che – si legge nel rapporto – si è attivamente e costruttivamente impegnata per migliorare le relazioni con il Kosovo e la stabilità della regione». Una decisione definitiva al riguardo, comunque, non verrà presa prima di giugno.
A chi non è piaciuto l’accordo. La circostanza probabilmente più importante, nel corso dell’approvazione del documento, è l’atteggiamento avuto dal governo serbo nella giornata di ieri: il Consiglio dei ministri, riunito in una sessione straordinaria, ha deciso di adottare il piano all’unanimità. Anche i partner più nazionalisti della coalizione, come i progressisti dell’Sds, hanno supportato l’accordo, e non dovrebbero quindi esserci sorprese nel momento in cui l’assemblea parlamentare dovrà approvare il patto: la maggioranza necessaria c’è.
Non tutta l’opinione pubblica ha tuttavia apprezzato la conclusione dell’accordo. I segmenti più nazionalisti hanno organizzato delle manifestazioni di protesta a Belgrado, che sono state però in gran parte disattese dalla cittadinanza. Altri attori tradizionalmente conservatori, come la Chiesa ortodossa serba, hanno condannato duramente il patto, che costituirebbe «un riconoscimento pratico, per quanto indiretto e non dichiarato, di un sistema di governo nella provincia di Kosovo e Metohija indipendente dalle strutture serbe». Per il sinodo, «il prezzo che la Serbia pagherà per entrare nell’UE è il riconoscimento dell’indipendenza kosovara». «Il governo ne risponderà a Dio», conclude il sinodo, che invita i Serbi del nord a resistere.
Da parte sua, Priština ha già ratificato il trattato, con una votazione parlamentare a maggioranza schiacciante: 89 voti favorevoli e soltanto 5 contrari. Ma anche in Kosovo qualcuno storce il naso nei confronti di un compromesso che mina l’autorità del governo centrale. Qualche centinaio di manifestanti ha protestato davanti al parlamento durante la votazione di ratifica. «Questo è un accordo personale del premier Thaçi», ha dichiarato Vetëvendosje, movimento nazionalista kosovaro, «e sabota la costruzione di un Kosovo funzionante, creando un’asimmetria fra i comuni a nord dell’Ibar e il resto del Paese e gettando le basi per una sua separazione etnica».
Dove andare ora? Nonostante le resistenze delle fazioni più massimaliste di entrambe le parti, l’accordo di venerdì scorso rappresenta verosimilmente il massimo che si potesse fare nelle attuali condizioni. Belgrado è consapevole che ormai la battaglia del Kosovo è persa, e ha cercato di trarre il massimo vantaggio dalla situazione, utilizzando evidentemente l’enclave del nord come una merce di scambio politico per continuare il proprio percorso nell’integrazione europea.
La grande questione che rimane aperta, dopo le firme di venerdì, è sempre quella del riconoscimento internazionale del Kosovo. All’interno dell’Unione europea cinque stati continuano a non ritenerlo uno Stato (Spagna, Slovacchia, Cipro, Romania e Grecia), ma ciò non impedisce a Bruxelles di condurre con esso delle normali relazioni diplomatiche, come avviene per altri territori che non sono considerati degli stati indipendenti come Taiwan. I politici serbi, dal premier Ivica Daia Vuk Jeremi, presidente dell’Assemblea Onu, si sono sprecati nel ricordare che questo accordo «non implica in nessun modo il riconoscimento del Kosovo». Ritorna così di attualità, in un certo senso, la frase di Bekovi ricordata in apertura: di Kosovo, la Serbia, non vuole proprio sentir parlare.
Se un riconoscimento formale dell’indipendenza della provincia è da escludere per Belgrado, è altresì vero che la conclusione dell’accordo, pragmaticamente, la riduce a una mera formalità: se nel documento, infatti, si parla di garantire alcune autonomie all’enclave del nord nei confronti di Priština, è chiaro che implicitamente la Serbia riconosce che un qualche tipo di autorità, a Priština, deve pure esistere. La «portata storica» dell’accordo è quindi questa, che attraverso di esso la Serbia accetta di aver perduto di fatto l’autorità sui propri concittadini del nord: a essi riconosce uno status protetto, ma che verrà garantito per la prima volta dalle leggi del Kosovo.
Sono proprio loro, i Serbi dell’enclave, a essere in fin dei conti i grandi sconfitti di queste giornate: tenuti in ostaggio, presi tra Belgrado e Pristina, non hanno avuto alcuna voce in capitolo. Gli accordi si sono svolti senza di loro. Rimasti sullo sfondo, ora patiscono quello che dal loro punto di vista è un tradimento: la patria li ha abbandonati per seguire i diktat di Bruxelles. Ventimila persone hanno sfilato ieri a Mitrovica, per dichiarare che «il Nord del Kosovo rimane una parte della Serbia». Difficile immaginare, almeno nell’immediato, che essi siano disposti a cooperare con le autorità kosovare, finora sistematicamente boicottate.