Doveva essere un rituale convegno sulla piccola industria, che si svolge ogni due anni, per analizzare problematiche e prospettive di quella che è sempre stata considerata la spina dorsale del sistema economico italiano, invece probabilmente si trasformerà in un ulteriore atto di protesta degli imprenditori. Con uno slogan, che da settimane è diventato un mantra: “Il tempo è scaduto”, come ha ribadito ieri il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, riferendosi anche all’urgenza di formare un governo.
E così, domani a Torino, al meeting dei Piccoli, si terrà a battesimo, molti imprenditori lo auspicano, la macroregione degli imprenditori che, dal Piemonte fino all’Emilia, annaspano fra crisi di liquidità, calo drastico della produzione industriale, mancanza di prospettiva e nessuna porta dei palazzi romani a cui bussare per chiedere una politica industriale che possa rilanciare la crescita economica.
Sono passati cinque anni dall’inizio della crisi e sembra sia statoquasi un piano quinquennale della devastazione del sistema economico italiano. Con un problema di rappresentanza (frustrata) che sta acuendo la divisione fra la base degli imprenditori e la dirigenza delle associazioni di categoria, incapaci o impossibilitati a fare lobby, a causa dello stallo politico. Ad esempio fra i piccoli imprenditori che arriveranno da tutte le regioni del Nord, a Torino, c’è anche chi voleva trasformare il convegno in una marcia per evocare quella fatta nel 1980 da quarantamila quadri della Fiat, sottolineando un altro tipo di boicottaggio, ormai quasi fatale, della piccola impresa italiana da parte del sistema politico. E’ più probabile che siano gli imprenditori del Nord a creare una macroregione, prima dei governatori della Lega, per trovare il modo di rilanciare l’economia. Con un unico e condiviso punto di partenza: l’ira funesta contro un Paese che si sta rivolgendo contro se stesso. E la rabbia contro un sistema politico, che impedisce, con la sua inerzia, ogni cura per permettere alle imprese di guarire dalla recessione.
Lo sdegno è tale che lunedì scorso i dodici presidenti delle confindustrie locali della Lombardia, hanno fatto una conferenza stampa per lanciare un severo monito alla politica, con un motto inequivocabile: “Codice rosso per le aziende”, come se ormai fossimo in guerra. Basta dare qualche numero per capire l’emergenza. Come ha sottolineato il presidente delle piccole imprese della Confindustria, Vincenzo Boccia, «Dal 2007 ad oggi abbiamo perso 8 punti di Pil, i disoccupati sono diventati 3 milioni e nel 2012, ogni giorno, 41 imprese del settore manifatturiero sono state costrette a chiudere». Un bollettino di guerra «che ci fa impazzire» spiega a Linkiesta il presidente della Confindustria lombarda, Alberto Barcella. «Il sistema imprenditoriale lombardo sta per gettare la spugna. Non ci possiamo permettere un’ulteriore flessione industriale. Nel 2012 la produzione è calata complessivamente del 3,7%, mentre i consumi si sono ridotti del 3,2% e il reddito procapite è sceso del 3,8%. Non abbiamo un governo che si occupi dei problemi dell’economia reale. Siamo un paese così civile da dover essere contenti perché il governo tecnico ha fatto un decreto per pagare metà del debito della Pa nei confronti delle aziende da diluire in due anni per darci, forse, la metà dei soldi di un credito che di aggira su 80 miliardi e ci è dovuto. In ogni caso – prosegue Barcella – mettendo da parte per un momento le riforme strutturali che aspettiamo da vent’anni, i problemi urgenti sono questi: trovare liquidità per i crediti alle aziende, finanziamenti per la cassa in deroga (in Lombardia mancano 150 milioni di euro per coprire gli ammortizzatori sociali del 2013), e fondi per aumentare le garanzie bancarie dei Confidi, che ora vengono meno anche per le aziende senza problemi di liquidità. Le sembra forse eccessivo se uso il termine codice rosso»?
Nella macroregione degli imprenditori in questo momento è paradossalmente facile essere tutti d’accordo. Anche perché è impossibile trovare un imprenditore che non sia furioso. «Facciamola pure questa macroregione imprenditoriale se serve a fare massa critica e a obbligare lo stato a trovare delle soluzioni», incalza il presidente della Confindustria veneta, Roberto Zuccato. «Per me bisogna poter sforare il patto di stabilità europeo, troppo rigido, anche se temporaneamente, per far ripartire l’economia. Insomma, io sono molto arrabbiato: le aziende muoiono, vanno bene solo quelle trainate dall’export, mentre quelle che devono fare i conti con il mercato interno sono stremate, il tessuto sociale ed economico sta mutando e tutto è fermo. Dobbiamo smacchiare Il Pd-Pdl, cambiare legge elettorale, e creare un sistema stabile e credibile che ci permetta di avere un progetto paese e ripartire. Non si può più perdere tempo: bisogna fare riforme strutturali e rimediare gli errori del passato, che ci hanno portato alla recessione e poi alla depressione»! Per il presidente della Confindustria piemontese, Gianfranco Carbonato, si potrebbe scrivere un’enciclopedia Treccani con l’elenco dei problemi delle piccole aziende. «E non possiamo neanche affermare che siamo soddisfatti del decreto per pagare alle aziende i debiti della Pa: il governo è arrivato troppo tardi perché questi fondi possano rimettere in circolo la liquidità necessaria a rialzare la testa. La crisi di liquidità è diventata una patologia cronica. Si doveva fare un anno fa. Se si voleva evitare il collasso, si doveva prendere sul serio il nostro manifesto per salvare l’Italia e tornare a crescere. Ci hanno ignorato e ora i problemi si sono acuiti in modo drammatico. Durante la campagna elettorale non abbiamo sentito un solo discorso credibile sul lavoro. Ci hanno promesso che ci sarebbe stato un aumento di un milione di posti di lavoro e ora scopriamo che, al contrario, nel 2012 è stato perso un milione di posti di lavoro. Non credo che ci sia altra alternativa allo sforamento del patto di stabilità europeo. Così come – continua Carbonato – non è servita la riforma del lavoro: non è aumentata la flessibilità in uscita, ma in compenso è diminuita quella in entrata. Gli imprenditori hanno paura e non assumono più. E poi le imprese sono tartassate dalla pressione fiscale, arrivata al 52% e questo significa che siamo noi a pagare parte della spesa pubblica. In questo contesto, è impossibile recuperare competitività…».
Parole inconsuete sulle labbra, di solito abbastanza ingessate dei rappresentanti della Confindustria, che ora usano sempre gli stessi aggettivi: oppressione, vessazione, ingiustizia. Aggettivi che una volta venivano utilizzati dalla classe operaia, che come è noto mai è andata in Paradiso, tanto meno ora che i lavoratori stanno affondando con i padroni. Come spiega anche Licia Mattioli, presidente dell’Unione industriale torinese, che domani spiegherà la drammatica situazione delle imprese locali, soprattutto quelle del settore metalmeccanico: «Io mi dico e chiedo: come mai i giapponesi che hanno un debito pubblico superiore al nostro, ci hanno messo due giorni per mettersi d’accordo e trovare i fondi per un piano di rilancio delle imprese? Basta guardare a come si sta gestendo la questione della Tav per capire che abbiamo toccato il fondo. Abbiamo perso ogni credibilità internazionale, e non siamo in grado di attirare investimenti. Vogliamo parlare dell’Irap? E’ la tassa più idiota che esista al mondo. Se un’azienda cresce e fa investimenti, viene tassata; se al contrario, un’azienda è in difficoltà e perde terreno, viene tassata ugualmente. Come si fa a resistere alla crisi in queste condizioni? A Roma non fanno il governo? E allora a Torino parleremo al Paese, nella speranza che qualcuno ci ascolti».
Nella pancia della piccola impresa, i sentimenti di rabbia, sdegno e frustrazione sono rivolti anche verso le associazioni di categoria, verso le quali molti imprenditori ormai nutrono sfiducia. Ecco perché nascono e crescono nuove aggregazioni imprenditoriali. Come Confapri, la Conferenza permanente di esperti delle attività produttive italiane per un Rinascimento, una sorta di sindacato di base delle aziende, che guarda al M5s, e ha deciso di fornire ai politici proposte e leggi ad hoc per ridurre la pressione fiscale e la burocrazia, ma con un sentiment molto enfatico, per così dire, contro la casta. Oppure l’associazione ImpreseCheResistono, fondata ormai qualche anno fa dal piemontese Luca Piotta, che per fare una protesta che avesse anche un richiamo simbolico, nello scorso autunno organizzò sempre a Torino una marcia di piccoli imprenditori che camminavano all’indietro, come i gamberi, per evocare la recessione-regressione del sistema economico. «E facciamola la macroregione degli imprenditori, magari così le diverse associazioni di categoria la smettono di farsi i convegni da soli per sedare la rabbia dei propri affiliati, e si crea un’alleanza trasversale di tutti, dico tutti, gli imprenditori delle zone ancora produttive del nostro Paese», osserva Peotta. «Anche se mi fa un po’ ridere assistere alle invettive della Confindustria contro Equitalia, incubo delle piccole aziende, e poi scoprire che i soci morosi di Confindustria che non hanno pagato la propria quota ricevono cartelle esattoriali… Giorgio Squinzi ha detto che si può rinunciare ai 30 miliardi di agevolazioni e finanziamenti statali alle imprese, che poi finiscono quasi tutti nelle tasche delle società pubbliche? Bene, bravo, applausi. E allora io propongo che quei fondi vengano usati per diminuire il costo dell’Irap, che è il vero cancro delle aziende. Diminuiamo metà delle imposte e l’altra metà la usiamo per aumentare la busta paga dei nostri lavoratori e fare investimenti. Vogliamo stabilità politica, ma soprattutto non vogliamo morire di tasse. Non c’è il governo? E allora facciamo un appello a papa Francesco perché interceda per noi imprenditori, che ora, evangelicamente parlando, siamo davvero gli ultimi…», provoca Peotta.
Anche se è difficile in questo momento cogliere le sfumature fra associazioni di categoria strutturate e piramidali, come la Confindustria, e organizzazioni minori come Rete imprese Italia, che riunisce tutte le associazioni di artigiani e commercianti. Tutti chiedono le stesse cose, tutti provano la stessa, manifesta, ira funesta. Per Claudio De Albertis, presidente dell’Assimpredil Ance, l’associazione dei costruttori edili che il 13 febbraio scorso ha organizzato il giorno della collera con 10mila caschi gialli appoggiati per terra in piazza Affari per protestare contro la perdita produttiva nel settore delle costruzioni di 23 miliardi di euro dal 2008 ad oggi, è arrivato il momento di scrivere l’elenco delle vessazioni, subite dalle imprese. Soprattutto burocratiche. «Chi toglierà i cavilli che impediscono alle aziende edili di metterci 5 anni a costruire un cantiere diventerà il salvatore della patria, ma purtroppo in Italia non si riescono a fare neanche le riforme a costo zero. Non riescono a fare un governo di larghe intese? Ebbene allora facciano un governo di salute pubblica, prima che il sistema economico tracolli definitivamente. Ormai le imprese che non esportano sono diventate dei finanziatori coatti degli enti pubblici, ma è mai possibile accettare una cosa del genere»? Così la pensa anche Fausto Cacciatori, presidente lombardo di Cna, la confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa. «In Italia ormai non c’è più lavoro, non ci illudiamo, e neanche un sistema politico capace di rimettere al centro l’economia reale. Siamo in ritardo, fare impresa ormai è impossibile, il rapporto stato cittadino è compromesso, il cuneo fiscale è di 13 punti superiore alla media dell’Ocse, il malessere nelle diverse associazioni di categoria è diventato patologico e ogni anno il traguardo della ripresa economica viene spostato all’anno successivo. Le leve su cui puntare – prosegue Cacciatori – per ricominciare a crescere e permettere alle imprese di non staccare la spina sono diverse, ma la mia sintesi è la seguente: il nostro sistema produttivo non può competere con le sfide globali perché è fermo al secolo scorso».
Per questo domani e sabato a Torino andrà in scena, virtualmente perchè le assise sono degli imprenditori legati a Confindustria, una sorta di alleanza trasversale tra categori produttive, grandi e piccoli, persino padroni ed operai. Per una volta spinti dalla gigantesca crisi a sedere dalla stessa parte della barricata, cercando di dimenticare gli interessi corporativi di ogni categoria. Una grande macroregione dei produttori interessata urgentemente a chiedere quattro cose sole: un governo, una politica industriale, meno tasse e meno burocrazia. Altrimenti è la fine.