«All’ingresso della discoteca c’erano due buttafuori. Uno mi ha chiesto di dove fossi. Ho risposto che ero israeliano, e si sono scambiati un’occhiata contrariata. Mi ha chiesto nuovamente di dove fossi, avvicinandosi e alzando la voce. Ho pensato che non avesse capito, e gli ho dato il mio passaporto blu. Ha detto: “Non riconosco questo posto di cui parli. Non hai documenti validi per entrare. Noi siamo palestinesi. Se mi dici che sei palestinese ti faccio entrare. Lo ha ripetuto due volte, urlando”. Ho deciso di andar via. Fa uno strano effetto sentirsi dire qualcosa di simile in Germania».
È una testimonianza che riporta un giovane israeliano appena trasferitosi a Berlino da Tel Aviv. Ogni giorno in città giungono nuove persone dal paese ebraico. È per effetto della crisi economica: la stessa che ha spinto i giovani alla protesta sul Rotschild Boulevard due anni fa . Se i leader del movimento, allora, rifiutavano qualsiasi ruolo politico, adesso sono stati fagocitati dalla sinistra in crisi. La promessa di un seggio al parlamento, retribuito “all’italiana”, è stata più allettante rispetto alla prospettiva di nuovi campeggi nei parchi cittadini. Tutti gli altri giovani di Rotschild sentono di non avere più un ruolo, e molti scappano. Su una nota lista delle “ 25 cose peggiori di vivere a Tel Aviv”, dopo “i francesi sulla spiaggia” e “gli hipster che si prendono troppo sul serio”, al numero 20 c’è “tutti parlano di trasferirsi a Berlino”.
E si sta creando una comunità. Ci sono problemi seri d’integrazione con alcune fasce d’immigrati di data più antica e altra religione. L’episodio di cui sopra è solo uno tra i tanti che riguardano i 20.000 israeliani che ormai risiedono nella capitale tedesca. Si può parlare finché si vuole di collegamenti tra sionismo ed ebraismo, ma questi giovani vivono la condizione dei “senza patria”. Sulla una pagina Facebook cittadina si è parlato un paio di volte di rapine ai danni d’israeliani, con tanto di minacce di morte perché “odio gli ebrei”.
È una nuova diaspora provocata dai problemi economici, a detta di alcuni. Ci si rintraccerebbe anche la “fine dell’idea nazionale israeliana”, secondo altri. A Berlino ci s’interroga sulla situazione, e i punti di vista sono molto diversi. «C’è voglia di scappare da una situazione che molti giovani trovano insostenibile: la sensazione di emergenza perenne e l’economia sono difficili da sopportare» dice Tal Alon dietro a un cappuccino in un bar di Kreuzberg.
Fuori c’è la neve: l’atmosfera bianca, fredda e calma sembra essere l’opposto rispetto alle vie centrali di Tel Aviv. «Ma non è solo questo» continua Tal « Da decenni i giovani israeliani dopo il servizio militare [che dura tre anni per gli uomini e due per le donne, ndr] sentono la necessità di viaggiare per uno o due anni. Adesso con la nuova emigrazione si esprime questa necessità di esplorazione, che in realtà accomuna gli israeliani con gli europei. Ma in realtà il motivo principale è semplcemente economico».
«Gli israeliani che vengono qui a Berlino scelgono di scendere socialmente, ma di salire a livello economico» dice Tal Alon. È uno dei pregi – in estinzione – della città: una condizione di vita decente è riservata anche a chi svolge lavori normali, con orari normali. È ben diverso dai racconti di Tel Aviv, con le coppie di professionisti a doppio reddito che devono lavorare dodici ore al giorno per mantenere casa in città. Tal Helon dirige un magazine per la comunità, lo “ Spitz Magazin”, con informazioni su eventi e offerte di lavoro per i nuovi arrivati.
In realtà già negli anni Novanta c’era già stato un arrivo in massa di persone di religione ebraica, ma provenivano dall’ex-Unione Sovietica. Riuscivano a ottenere il visto con relativa facilità, tra leggi per il ritorno e altre facilitazioni. Ma la loro cultura sociale è assai diversa da quella emancipata e occidentalissima dei nuovi israeliani, tanto che sembrano essersi create due comunità diverse.
«Ma in fondo non è un problema se così tanta gente si sta trasferendo qui» sostiene Tal Hever, ricercatore presso l’Università Humboldt di Berlino ed editore di una rivista in ebraico sulla nuova diaspora, “Mikan Ve’eylakh” (“Qui e oltre”). Ha idee molto nette su Israele, che non chiama mai così, ma solo “stato israeliano” o “Palestina”. «La cultura ebraica è sempre stata essa stessa una cultura dell’emigrazione. L’idea della cultura ebraica è diasporica». Nato in California, si è trasferito in Israele subito e ha studiato a Gerusalemme. «Dal mio punto di vista» sostiene «non darei allo stato israeliano più di vent’anni di vita. La pressione araba sta funzionando».
A Berlino ci s’interroga poco di questioni culturali e nazionaliste. La comunità dei giovani israeliani esiste, per qualsiasi ragione. È una comunità che si sente abbandonata dalla patria, e che fatica a essere accettata in quella nuova – come tutte le nuove immigrazioni. Gli israeliani sembrano trovarsi in una strana situazione in cui “non hanno ancora deciso se stare o tornare”, nelle parole di Ethan, un ragazzo che si è trasferito qui da pochi mesi per fondare una start-up.
Nell’edizione più importante dell’anno del telegiornale israeliano di “Channel 2”, quella dopo il pranzo di Yom Kippur il 26 settembre 2012, un servizio è stato dedicato agli israeliani a Berlino. Il messaggio del videomaker era scomodo: dai viaggi dopo il militare, la gente sembra adesso aver fatto un passo oltre. Si vuole fuggire dalla “sindrome dell’accerchiamento” (ma questo il video non lo poteva riferire), e si coltivano nostalgie del paese di origine.
Ogni due settimane nel quartiere di Mitte si tiene un party chiamato “Meshugge” (“Folle”), in cui si il DJ mette canzoncine militari d’epoca, successi disco-trash israeliani degli anni Novanta, canzoni confidenziali israeliane. È un tripudio di bandierine con la stella di David e canottiere, che un po’ sembrano essere i simboli di Tel Aviv. È la sopravvivenza di alcuni aspetti aggreganti e pop cultura nazionale israeliana, che trova qui espressione tardiva. «Ma viene fatto con molta ironia» dichiara Tal Hever. «È come la simbologia punk: si prende un simbolo che ha un significato forte e se ne fa un uso diverso».
E ancora una volta il popolo ebraico, o almeno una parte di esso, sembra essere in cammino. I ristoranti, le start-up, i giornali israeliani che nascono a Berlino non rappresentano un ritorno, perché la cultura israeliana di oggi è diversa da quella dei padri che lasciarono questi posti ottant’anni fa: «dire “israeliano” è tutt’altro rispetto a dire “ebreo”, ricorda Tal Hever. I giovani israeliani sono pionieri di un nuovo modo di vivere. Cercano di ritagliarsi un’esistenza in un contesto più aperto, internazionale e sostenibile di ciò che è diventata Tel Aviv. Del resto, al primo posto delle 25 cose più brutte di Tel Aviv svetta “Il resto del mondo pensa che vivi in una zona di guerra”.
In patria non si vede ancora una soluzione alle questioni militari ed economiche. Forse l’unico sforzo dichiarato sembra essere stato quello di una campagna di comunicazione un po’ sbilenca, per invitare la gente a stare in Israele. «In una clip c’è un padre che dorme su un divano», afferma Tal Alon di Spitz Magazin «arriva un figlio che lo prova a svegliare, e il papà reagisce solo quando viene chiamato in ebraico. Insomma, di fatto non propongono niente. Al limite qualche esenzione fiscale, ma sembra che tutto si basi su famiglia e bel tempo». Italy, anyone?
Giovani israeliani a un “Meshugge party” a Berlino
Giovani israeliani a un “Meshugge Party” a Berlino
Tal Alon, direttrice dello Spitz Magazin, a Berlino, nella neve