Cipro è un modello, nonostante l’Ue dica il contrario. Il salvataggio della piccola isola del Mediterraneo ha fatto e continua a far discutere. Colpa del prelievo forzoso sui conti correnti delle prime due banche del Paese, Bank of Cyprus e Laiki. Colpa delle misure di controllo dei capitali. Colpa del bail-in, ovvero del salvataggio degli istituti di credito tramite i fondi depositati. Il presidente dell’Eurogruppo si è fatto scappare che l’esempio di aiuto finanziario a Nicosia sarebbe stato la base di uno schema europeo, un template. Apriti cielo. Unanime la reazione dei policymaker, culminata con le parole del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: «No, Cipro non è un modello».
Eppure, tutte queste misure fanno parte della proposta di nuova direttiva comunitaria lanciata proprio lo scorso 6 giugno. Un’idea arrivata dal commissario Ue al Mercato interno, il francese Michel Barnier, e sposata in toto dal vicepresidente della Commissione Ue, il finlandese Olli Rehn. E nelle 171 pagine del documento c’è spiegato tutto nei minimi dettagli.
Tutto ruota intorno ai soldi. Soldi che non ci sono. O meglio, non ce ne sono abbastanza per proteggere tutto il sistema finanziario europeo. Troppe le criticità. Da Northern Rock a Bank of Cyprus, passando per Fortis, Dexia, Monte dei Paschi di Siena. Le banche europee sono deboli e fragili. Basta un battito d’ala di una farfalla in Giappone, o negli Stati Uniti, per creare un uragano in Europa. Ecco perché si è arrivati alla paradossale situazione che si è dovuto inventare un metodo di risoluzione delle crisi bancaria. E questo passa tutto attraverso il desiderio di non dover più utilizzare soldi pubblici per salvare gli istituti di credito. «Ci sono altre soluzioni», disse a giugno il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso. Con la proposta di direttiva si vuole prevenire, piuttosto che curare. Tuttavia, come riporta il documento, «se la situazione finanziaria di una banca si deteriora irrimediabilmente, la proposta garantisce il salvataggio delle funzioni essenziali di quest’ultima evitando nel contempo che i costi della ristrutturazione e della risoluzione delle crisi delle banche in dissesto ricadano sui contribuenti, facendoli invece ricadere sui proprietari e sui creditori della banca».
I proprietari e i creditori della banca sono quindi i soggetti che dovranno pagare per le future crisi bancarie. Tuttavia, è un messaggio piuttosto subdolo, dato che gli azionisti sono i proprietari della banca, mentre i creditori non sono altro che gli obbligazionisti, che tramite l’acquisto dei bond hanno prestato denaro all’istituto di credito al fine di potergli permettere investimenti e non solo. In sostanza, come ha ribadito Barnier, non possono pagare tutti i contribuenti per il salvataggio di una singola banca. E il progetto è che si applichino quattro strumenti di risoluzione delle crisi.
Il primo è l’attività di M&A (Mergers and Acquisitions, fusioni e acquisizioni) fra banche. L’istituto di credito in dissesto viene venduta, in parte o in toto, a un altro al fine di consentirgli il proseguimento della normale attività bancaria. In pratica, quello che è successo negli ultimi anni in Grecia e che recentemente è deragliato fra Alpha Bank ed Eurobank, due fra le maggiori banche elleniche. I rischi di questa operazione sono però elevati. «Se si decide una fusione fra istituti dello stesso sistema, bisogna valutare bene l’impatto di questo, al fine di non affossare la banca sana, che potrebbe diventare velocemente la prossima a entrare in crisi», ha affermato HSBC dopo la proposta Ue.
Si passa poi al secondo strumento, la banca-ponte. Se un’istituzione finanziaria ha una crisi, che sia di liquidità o che sia strutturale, le autorità possono scegliere di selezionare le attività migliori e costituire una nuova entità bancaria, che sarà poi venduta a terzi. Tutte le attività deteriorate, in pancia alla vecchia banca, saranno invece liquidate tramite una procedura ordinaria di insolvenza. In altre parole, del vecchio istituto di credito rimarrà solo il ricordo. «Un mossa invasiva, ma che è interessante, dato che ripulisce le banche, dividendole e continuando l’attività normale», nota Morgan Stanley. A tutti gli effetti, continua la banca americana, è uno dei migliori strumenti contenuti nella proposta.
Se nemmeno questa via è percorribile, il piano europeo propone la bad-bank. Come nel caso della banca-ponte, con cui la bad-bank lavora, si opta per la separazione delle attività, sane e deteriorate. Queste ultime vengono trasferite in un veicolo di gestione, cioè proprio la bad-bank, che così ripulisce lo stato patrimoniale della banca in crisi. Una misura anch’essa con diversi rischi. Come aveva notato UBS nel marzo 2012, «la creazione di una bad-bank può essere compromessa dalla velocità con cui avviene la due diligence». In altre parole, le autorità finanziarie potrebbero non comprendere velocemente, e nel migliore dei modi possibili, quali attività siano sane e quali no. «Se il processo di nascita della bad-bank non è vicino alla perfezione, tutta l’operazione è inutile», scrisse UBS. Troppo controproducente e sistemicamente rischioso usare la bad-bank? UBS puntualizza: «Dipende caso per caso».
Infine, la quarta opzione. Quella utilizzata per Cipro. La misura che spaventa investitori, risparmiatori, azionisti e obbligazionisti: il bail-in. Al contrario del bail-out, ovvero il salvataggio esterno con soldi pubblici, il bail-in si può considerare come un autotrasfusione di liquidità. Nato fra 2009 e 2010, presentato per la prima volta in Europa dall’Association for financial markets in Europe (Afme), il bail-in è stato scelto come uno degli strumenti di risoluzione da Barnier. Può avvenire in diversi modi. Da un lato si possono colpire gli obbligazionisti, che perdono il loro status e diventano azionisti della banca, al fine di ricapitalizzare l’intero istituto. Oppure gli obbligazionisti possono perdere una sola parte di ciò che hanno, subendo un haircut (svalutazione sul valore nominale). Come? La banca converte le obbligazioni esistenti con nuovi bond. Oppure, si possono colpire i depositanti.
Pensiamo a Cipro, alle sue due banche su cui è stato applicato un modello di risoluzione analogo a quello contenuto nella proposta di direttiva di Barnier. I depositanti oltre i 100.000 euro di Bank of Cyprus e Laiki hanno visto, e stanno ancora vedendo, gli effetti del bail-in. Di punto in bianco, gli eventuali 500.000 euro in Laiki sono stati ridotti. I fondi sono stati congelati, tramite misure di controllo dei capitali, e saranno usati per la ricapitalizzazione della banca. Di contro, i depositanti riceveranno obbligazioni della banca. «Un meccanismo perverso e che va contro il normale rapporto di fiducia fra correntista e istituto bancario», ha commentato il Credit Suisse. Colpa soprattutto delle limitazioni alla libera circolazione dei capitali, che si rendono quasi obbligatorie nel caso di un bail-in. Per evitare che i capitali fuggano altrove, e nel caso del bail-in l’operazione può durare settimane, le autorità finanziarie possono avallarsi quindi dell’articolo 65 del Trattato sul funzionamento dell’Ue. Il tutto con l’obiettivo di evitare un bank-run, continuare la normale attività creditizia e prevenire disordini sociali. Proprio come è successo a Cipro.
«I depositanti non assicurati potranno subire perdite nelle future crisi bancarie». A dirlo pochi giorni fa è stato Olli Rehn, in un’intervista alla televisione finlandese YLE. Delle due l’una, o il modello di Cipro non è un modello oppure lo è. Nel caso lo sia, prende spunto dalla proposta di direttiva comunitaria lanciata nello scorso giugno. E come ha spiegato Koen Doens, portavoce della Commissione Ue, questa proposta è vista entrare in forza ufficialmente nel 2015, per poi avere il bail-in come strumento automaticamente attivabile (e valutabile non caso per caso come oggi) a partire dal 2018. Ben più di un modello, quindi. Una nuova realtà.