Bacco è immune alla recessione. Con un fatturato in aumento del 6,9%, investimenti in crescita del 10,3%, e i dipendenti a più 2,6%, nel 2012 l’industria del vino sembra aver reagito alla crisi molto meglio di altri settori.
Fonte: Mediobanca
Eppure i dati non devono trarre in inganno: i risultati positivi ottenuti dalle imprese vinicole l’anno passato, rispetto al 2011, sono per la maggior parte dovuti alle loro performance nei mercati esteri. Con ricavi pari a 4,66 miliardi di euro (+6,6%) nonostante i 21 milioni di ettolitri complessivi rappresentino una contrazione del 9% sul 2011, l’export vinicolo nel 2012 ha conseguito un nuovo record storico, mentre il mercato interno, come detto, è avaro di soddisfazioni.
Fonte: Mediobanca
In uno scenario macroeconomico europeo caratterizzato da consumi in costante e strutturale diminuzione, nell’ultimo biennio i consumi di rosso, bianco, rosè e bollicine sono diminuiti del 2 per cento. Secondo il “Survey Wine Monitor”, un’indagine online realizzata da Wine Monitor su 97 imprese italiane operanti nel settore vinicolo, il 44% delle aziende ha evidenziato risultati negativi all’interno dei confini della Penisola. Una cifra che sale al 53% per le imprese più piccole (meno di 2 milioni di fatturato). Le quali stimano il calo sia dovuto in primis alla discesa dei redditi (60,2%) ed in misura minore alla crisi del settore della ristorazione (18,2%), all’inasprimento del codice stradale (9,1%) e ad altri fattori quali diete ed altri stili di vita (5,7%).
D’altra parte, e per fortuna, gli altri Paesi apprezzano sempre di più il made in Italy vinicolo. Questa dinamica fa parte di una generale spinta alla globalizzazione che ha coinvolto il mercato mondiale del vino. Paesi tradizionalmente estranei alla tradizione hanno iniziato già da tempo ad adottarne il consumo. Risultato? Sebbene Francia, Stati Uniti e Italia detengano tuttora il primato di maggiori consumatori mondiali, negli ultimi 15 anni il consumo di vino in paesi come Cina, India, Russia, Nuova Zelanda è cresciuto ad un ritmo superiore al 100 per cento.
L’anno scorso l’Italia si è posizionata sul secondo gradino del podio dopo la Francia, sia per volumi che per giro d’affari. Tuttavia i principali mercati di sbocco dei prodotti vinicoli italiani rimangono prevalentemente occidentali: la Germania (35,4%), gli Stati Uniti (29,2%), il Canada (20,0%) e la Gran Bretagna (15,2%).
Fonte: Wine Monitor
Le imprese nazionali non hanno saputo imporre la loro presenza nei mercati emergenti – o meglio, emersi – che presentano le maggiori potenzialità di crescita. È il caso della Russia, dove a causa di complessità burocratiche legate al sistema delle licenze per le importazioni, la quota di mercato italiana è scesa dal 28,8% del 2011 a 25,2% nel 2012. Oppure del Brasile sceso dal 13,7% all’11,9% nell’arco di dodici mesi. Emblematico è anche il caso della Cina, dove su 100 bottiglie che vengono importate 6 sono italiane mentre 55 sono francesi. La differenza di risultati si può spiegare in termine di strategie commerciali. Mentre l’Italia è alle prese con modelli di distribuzione e promozione a dir poco superati, i francesi, da anni, investono risorse in marketing risultando così vincenti in quei mercati, come quello cinese, caratterizzati da un basso livello di educazione eno-gastronomica.
Parte del problema risiede nella frammentazione del tessuto produttivo italiano dominato da piccole e medie imprese. In un sistema produttivo che annovera 250mila viticoltori, 60mila produttori e 8mila imbottigliatori. Nel 2012 solo 30 imprese hanno presentato un fatturato maggiore a 50 milioni di euro. A queste si deve il 40% dell’export, mentre il restante 60% è affidato a piccole e medie imprese che singolarmente non hanno la disponibilità finanziaria per sviluppare modelli di distribuzione e comunicazione al passo con i tempi.
È opinione condivisa, e non da oggi, che serva una maggiore integrazione delle aziende vinicole italiane attraverso la creazione di sistemi di “rete d’impresa”, da un lato aumentando la capacità di fare lobby per semplificare la burocrazia e le normative sulle importazioni (licenze, dazi e accise) – che hanno impedito alle imprese italiane di penetrare mercati come quello russo – dall’altro per consentire ai “piccoli” di aggregare le risorse utili ad adottare nuovi modelli commerciali. Il tutto per superare il modello di “intermediazione unica”, ossia la ricerca di un agente/cliente nelle fiere, e il passaggio alla creazione di partnership di lungo periodo con i soggetti “intermediari” internazionali.
Export in Russia e Cina soprattutto, grande distribuzione e sistema-paese, per gli esperti, sono le leve da azionare per mantenere l’industria del vino un esempio di eccellenza del “Made in Italy”, contrastandone il declino, causa crisi, entro i confini nazionali.