Roma, al contrario di Tokyo, non può stampare moneta. Ma innalzare l’inflazione mentre si taglia il welfare potrebbe essere un’autosconfitta per una società che sta invecchiando.
Italia e Giappone sembrano uniti da una corsa a tre gambe. Tra non molto, è inevitabile che almeno uno dei due inciampi. Se consideriamo quanto pubblicato recentemente sulla colossale quantità di denaro che il Giappone sta per gettare nel tentativo di risuscitare un’economia cadente, sembra fuori luogo accostare i due paesi. Culture e misure economiche diverse suggerirebbero un legame decisamente improbabile, ma entrambi i paesi si trovano in un simile vicolo cieco e il Giappone sta guidando verso ciò in cui l’Italia potrebbe erroneamente cadere.
Italia e Giappone erano un tempo le due potenze dell’asse insieme alla Germania. Dopo la Seconda guerra mondiale hanno tutte e tre beneficiato di ampi sussidi economici, per lo più dagli Stati Uniti e nella maggior parte di essi nella forma di debito cancellato. Sgravati dai debiti, le tre nazioni hanno accumulato grossi risparmi, quasi tutti attraverso 40 anni di abilità manifatturiere che risalgono agli anni Cinquanta.
L’export di ogni genere di cose, dai tostapane ai ricambi auto, ha portato a un’incredibile crescita della ricchezza, per lo più messa da parte nelle banche locali o investita nel debito governativo.
Dai primi anni Novanta, tutte e tre le nazioni sono entrate in un lungo declino, gravato dai loro stessi problemi finanziari (l’integrazione della Germania dell’Est, la bolla immobiliare giapponese e nel caso italiano, una stagnante produttività) e dai tassi di natalità in calo (causati, presumibilmente, in parte da parte dalla fiducia dello Stato nel ruolo domestico delle donne, private di un supporto economico nell’assistenza ai figli anche una volta entrate nel mercato del lavoro).
Il baby boom tedesco del dopoguerra ha rotto il triumvirato. Tra le altre cose, i tedeschi hanno poi avallato il mix del cancelliere Gerhard Schröder, a metà tra il modello anglosassone (riduzione dei salari e della salvaguardia del lavoro) e quello francese, con il supporto all’infanzia unito a violenti tagli ai contratti dei lavoratori più giovani.
Roma e Tokyo hanno invece scelto di proteggere gli standard di vita della popolazione che invecchiava e allo stesso tempo colpire i salari e le condizioni di lavoro dei giovani. Non ha funzionato. Sebbene sembra ancora che siano loro a produrre in serie i migliori prodotti manifatturieri, soprattutto in Giappone, ciò è stato possibile grazie ad assemblaggi spostati all’estero.
In Italia, l’indotto automobilistico Fiat soffre di una emorragia di vendite, mentre i fornitori della valle del Po mantengono la casa tedesca Bmw ben rifornita di freni e portiere. Parallelamente, la società giapponese di elettronica Sharp, sta in piedi più grazie alla produzione di schermi per gli iPad della Apple, che alla produzione di Tv o sistemi mini hi-fi del suo stesso marchio. E ha attraversato difficoltà che l’hanno resa costantemente in perdita.
L’ultima strategia del Giappone è balzata in cima alle prime pagine dei giornali nell’ultima settimana. Detta in poche parole, a una politica di lungo periodo di riduzione del deficit statale (che ammonta al 10 per cento del Pil), si unirà una creazione massiccia di moneta, sullo stile della Federal Reserve americana. Un aumento dell’Iva dovrebbe tenere sotto controllo il deficit di bilancio.
Charles Dumas, l’eminente capo della società di analisi eonomiche Lombard street research, scrive nel suo ultimo articolo mensile come il rifiuto giapponese di adattarsi è costato caro ai suoi cittadini. La perdita di competitività delle esportazioni è tale che i redditi pro capite sono ormai circa la metà di quella degli Stati Uniti.
La deflazione, nella forma di un persistente calo dei prezzi, ha scoraggiato la spesa dei consumatori (perché spendere ora se i prezzi saranno più bassi nel giro di sei mesi o un anno?) e ha incoraggiato il risparmio. Perché, anche se i tassi di interesse sono ai minimi, i valori di risparmio aumentano ogni anno rispetto ai prezzi.
Dumas suggerisce a Tokyo di rottamare per il momento l’idea di un aumento dell’Iva e piuttosto tassare il denaro ristagnante in varie parti dell’economia giapponese. Ciò a cui mira sono i profitti societari che non sono né investiti né divisi tra gli azionisti. Consiglia una tassa punitiva al 100 per cento, e una tassa bassa o pari a zero per la spartizione dei dividenti. Lo scopo è quello di far rifluire il denaro nell’economia. Ma non quello creato dalla banca centrale e investito in altri strumenti finanziari nella speranza che poi arrivi fino alle tasche dei consumatori. Bensì il denaro contante.
Mentre non ci sono ragioni per attaccare il benessere e i risparmi dei singoli, specialmente i super ricchi, attaccare le società – che in Giappone uniscono opulenza e risparmio in pari misura, è più politicamente accettabile.Il primo ministro, Shinzo Abe, ha dichiarato la scorsa settimana che un’abbondanza di quantitative easing da parte della Bank of Japan raggiungerà lo stesso scopo ma meno dolorosamente.
Soprannominata «abenomics», la sua politica mira a svalutare la moneta e spingere verso l’alto l’inflazione attraverso le merci importate più costose. L’aumento dei prezzi riuscirà a convincere i consumatori a spendere ora, non dopo. Secondo la teoria, quando la pressione di una maggiore domanda e le importazioni più costose portano l’inflazione fino al 2 per cento, si mantiene un più alto livello di consumi portando a un’economia più florida e con maggiori spese.
Il problema con simili argomentazioni, a parte l’ovvio impatto ambientale, è che una moneta più bassa fa aumentare i costi dei beni importati, gas e petrolio, e i consumi privati di beni alimentari, energia elettrica e trasporto. Innalzare l’inflazione e tagliare il tenore di vita potrebbe rivelarsi un’autosconfitta.
A simili teorie spesso si contesta l’effetto domino del quantitative easing nel Regno Unito e negli Stati Uniti sulle spese dei consumatori. Essi hanno probabilmente evitato che l’inflazione cadesse precipitosamente, e i prezzi dei beni si sono rafforzati – come testimonia il mercato azionario in crescita – ma l’attività economica si è spostata solo marginalmente.
Tutto questo significa che il Giappone potrebbe uscirne con debiti più alti e un’economia ugualmente sclerotica, con ognuno che fa ciò che ha sempre fatto ma stipendi leggermente più bassi. Nessuna possibilità che gli immigranti vengano in soccorso all’economia.
La stessa cosa accade in Italia dove i giovani talenti stanno salpando. L’appartenenza di Roma all’euro, significa che non può stampare moneta. Potrebbe tassare il denaro improduttivo che giace nei conti correnti personali o delle società, m come molti altri paesi europei le sue banche non godono del massimo della salute.
Senza un export in espansione, Roma è obbligata a guardare all’interno e ha recentemente concentrato l’attenzione, come il Regno Unito, su un falò del welfare. Ma purtroppo, per una società che invecchia, ci riporta al punto di partenza. Senza un welfare sicuro che includa fondi per l’assistenza ai più piccoli, la popolazione continuerà a invecchiare. Se l’esempio tedesco non è certo da imitare, Roma lo ha abbandonato troppo tardi. Almeno dieci anni di benefit generosi paiono arrivare troppo tardi per i tedeschi che hanno meno figli a testa degli italiani.
Non stupisce quindi che molti economisti hanno speculato dicendo che l’Italia e non la Grecia sarà la prima a lasciare l’euro. Con un deficit di bilancio pari quasi a zero, può sopravvivere con i fondi di Bruxelles. Ma un’uscita e una svalutazione sarebbe un modo per Roma per ripetere quello “spendi e svaluta” che ha incoraggiato all’inizio la nascita dell’euro.
Non c’è una facile via d’uscita. Solo quando i governi si convincono che hanno bisogno di tassare il denaro fermo nelle loro economie per rilasciare nel mercato i fondi per gli investimenti di cui hanno disperatamente bisogno, la ripresa può iniziare.
di Phillip Inman, pubblicato il 7 aprile con il titolo “Why Italy should avoid the latest Japanese solution to economic woes”